L’attentato a Donald Trump ha dato un gancio alla visibilità politica in America del candidato repubblicano e mostrato le problematiche securitarie della superpotenza. L’aumento della conflittualità renderà possibile l’impensabile, come anche una messa in discussione delle basi istituzionali della democrazia americana? Partendo dall’attentato a Trump e arrivando al Project 2025, l’agenda del Grand Old Party per il post-presidenziali, sul tema scrive oggi il professor Umberto Saccone. Ufficiale dell’Arma dei Carabinieri, per 25 anni (1981-2006) all’interno del Servizio per le Informazioni e la Sicurezza militare (Sismi), dove ha ricoperto incarichi operativi in Italia e all’estero; Saccone ha diretto inoltre dal 2006 al 2015 la security di Eni.
Faber est suae quisque fortunae: «ciascuno è artefice della propria sorte» L’espressione, attribuita a Sallustio, è caratteristica della teoria dell’homo faber, secondo cui l’unico artefice del proprio destino è l’uomo stesso. Ma Trump con le sue esternazioni e con la sua aggressività è davvero responsabile di questo fatto di sangue di cui è stato vittima? Ci sarà un impatto sulla campagna elettorale? Ci sono delle concause?
L’ideologia di Trump è reazionaria?
Certamente sono diversi i fattori che contribuiscono a rendere insicura la vita negli Stati Uniti: il clima d’odio e di contrapposizione forte e aggressiva dei suoi leader, la presenza indiscriminata di armi, una sistematica soluzione dei conflitti sociali con il ricorso alla violenza, un problema di efficientamento delle forze di sicurezza, una dichiarata volontà di parte del mondo repubblicano di cambiare il volto degli USA plasmandone la società in chiave reazionaria.
Durante la campagna elettorale Donald Trump ha postato circa 80 mila tweet, confermandosi leader assoluto dell’hate speech. Durante la “political campaign”, e nel resto della sua vita, il candidato repubblicano non ha risparmiato esternazioni aggressive e commenti svalutativi sulle donne e sulle persone che appartengono a minoranze discriminate.
La rielezione di Trump sarà il via libera per sdoganare la rabbia?
Il pericolo, ora, è che molti americani vivano l’elezione di Trump come un’autorizzazione ad alzare il volume dell’odio, facendo sentire le loro voci misogine, razziste, omofobe, xenofobe. Judith Butler, docente al dipartimento di retorica e letterature comparate all’Università di Berkeley, ha sottolineato magistralmente come la retorica trumpiana possa danneggiare la civile convivenza: Non sapevamo – dice la Butler- quanto diffusa fosse la rabbia contro le elites, quanto fosse profonda la rabbia dell’uomo bianco contro il femminismo e il movimento dei diritti civili, quante persone fossero disilluse dalla deprivazione economica, quante persone fossero eccitate dall’isolazionismo e dalla prospettiva di nuovi muri e di un nazionalismo guerrafondaio. È questa la nuova ‘withelash’? Perché non l’abbiamo vista arrivare?”.
Il nodo del discorso d’odio
Invece l’abbiamo vista arrivare ma non siamo stati capaci di contenerla. Il Consiglio d’Europa già nel 1997 si è pronunciato con una raccomandazione, non ancora giuridicamente vincolante, ma che definisce e perimetra quello che definiamo heath speech.
Per il Consiglio: “si intende per discorso dell’odio il fatto di fomentare, promuovere o incoraggiare, sotto qualsiasi forma, la denigrazione, l’odio o la diffamazione nei confronti di una persona o di un gruppo, nonché il fatto di sottoporre a soprusi, insulti, stereotipi negativi, stigmatizzazione o minacce una persona o un gruppo e la giustificazione di tutte queste forme o espressioni di odio testé citate, sulla base della “razza”, del colore della pelle, dell’ascendenza, dell’origine nazionale o etnica, dell’età, dell’handicap, della lingua, della religione o delle convinzioni, del sesso, del genere, dell’identità di genere, dell’orientamento sessuale e di altre caratteristiche o stato personale” .
Il nodo sicurezza degli Usa
La presenza indiscriminata di armi è il passaggio successivo al clima d’odio. Tutto ebbe origine nel XVIII secolo quando il giurista inglese William Blackstone, definì l’autodifesa “la legge primaria della natura”, che la legge creata dall’uomo non può togliere.
Gli scritti di Blackstone influenzarono i redattori della Costituzione degli Stati Uniti che, con il secondo emendamento, hanno garantito il diritto di possedere armi. Il tema della diffusione delle armi leggere ha raggiunto un totale di 270 milioni con una percentuale di 89 armi ogni 100 abitanti. Nel Paese ogni anno oltre 30.000 persone rimangono uccise dalle armi da fuoco, una media di trenta vittime al giorno. La metà sono giovani -tra i 18 e i 35 anni-, un terzo sono giovanissimi -sotto i 20 anni-. Le armi rappresentano lo strumento con il quale si amplifica la violenza. Quindi certamente uno dei tasselli utili ad inquadrare correttamente le ragioni dell’accaduto di quel 14 luglio 2024.
La massiccia e normalizzata presenza di armi nella società americana, oltre che la proliferazione di gruppi armati e associazioni estremiste, sono certamente alla base degli attentati che dal 4 luglio 1776, giorno della dichiarazione d’Indipendenza, hanno funestato gli Stati Uniti.
Da Lincoln a Trump, quando i presidenti diventano bersagli
Delle 45 persone che hanno ricoperto la carica di presidente, 13 sono state oggetto di tentati omicidi, o omicidi veri e propri. Abraham Lincoln fu il primo presidente a essere assassinato, ucciso da John Wilkes Booth il 14 aprile 1865, anche se trenta anni prima, nel 1835, Andrew Jackson fu il primo presidente ad essere vittima di un attentato: infatti, il 30 gennaio 1835, fu bersaglio di un duplice attentato per mano di Richard Lawrence, imbianchino inglese disoccupato. L’uccisione di tre presidenti nell’arco di 36 anni portò il Congresso degli Stati Uniti ad assegnare il compito di occuparsi della sicurezza del presidente, del vice e degli ex presidenti a un’agenzia specifica, il Secret Service.
Un Secret Service che oggi viene chiamato a rispondere dell’attentato al candidato repubblicano ed ex Presidente degli USA.
Il nodo Secret Service
I fallimenti dell’intelligence sono quasi sempre fallimenti strutturali, non certo attribuibili ai team sul campo. Proprio per questo la rimozione di Kimberly Cheatle, a capo del Secret Service, richiesta a gran voce da alcuni analisti che si occupano di sicurezza nazionale, come la giornalista della CNN Juliette Kayyem, sarebbe un’idiozia. Bene per dare in pasto all’opinione pubblica un responsabile ma inidonee a risolvere il problema.
Tra l’altro è bene sottolineare come gli attacchi a sorpresa siano inevitabili in quanto causati da limiti propri delle organizzazioni. L’11 settembre è il caso scuola dove il coordinamento tra le agenzie di intelligence (CIA e FBI) non ha funzionato. La mancanza dello scambio di informazioni rilevanti, la diffidenza, la competizione e in particolare le rivalità sono la causa di eventi nefasti. Ma questo è nella cultura americana. Basti pensare all’allora segretario alla difesa Donald Rumsfeld che in un suo intervento ebbe a dire che ogni successo della CIA è un fallimento del Dipartimento della Difesa.
L’analisi dell’attentato
L’attentato di Butler in Pennsylvania rappresenta quest’anomalia tutta americana dove le 17 agenzie di intelligence riunite nel United States Intelligence Community e circa 20.000 forze di polizia a livello federale, statale e locale danno l’idea di quanto può essere complicato un fattivo coordinamento. Il ventenne Thomas Matthew Crooks, sdraiato su un tetto, a circa 150 metri di distanza dall’obiettivo, dove imbracciava il micidiale fucile d’assalto AR-15, si è potuto avvalere proprio della mancanza di coordinamento tra il Security Service e la polizia locale.
La risalita verticistica delle informazioni e la relativa ricaduta agli uomini sul campo del Security Service non hanno permesso al tiratore scelto, che aveva già agganciato l’obiettivo, di ricevere il segnale “sniper shoots”. L’ordine è arrivato tardi. Thomas è morto, Donald ha rischiato la vita, ma ringrazierà quel ragazzo per averlo fatto eleggere 47° Presidente degli Stati Uniti d’America.
Project 2025, un’agenda reazionaria per il Trump 2.0?
Un Presidente la cui, ora probabile elezione, suscita preoccupazione in parte della popolazione anche per la visione del piano repubblicano noto come Project 2025. Piano molto ambizioso nel quale viene raccontato come Donald Trump potrebbe governare, se rieletto a presidente degli Stati Uniti.
Project 2025, sviluppato dal think tank Heritage Foundation, vorrebbe dare a Trump, in caso di elezione, gli strumenti per portare la più grande democrazia verso l’autoritarismo. È un documento di oltre 900 pagine che propone di cambiare profondamente il governo federale americano e dare più poteri al presidente, nel caso Trump fosse eletto alla Casa Bianca. L’obiettivo è avere un piano pronto da mettere in atto nei primi mesi dopo una eventuale vittoria del tycoon alle elezioni.
Quindi una serie di fatti di per sé indipendenti ma concorrenti che, esaminati congiuntamente, offrono un quadro valutativo certamente più complesso, non limitandosi a formulazioni sommarie dell’unico responsabile (il Secret Service), individuando invece, nei limiti strutturali, le ragioni di un evento che potrebbe cambiare le sorti degli Stati Uniti, dei suoi alleati e del mondo nei prossimi anni.