Perché leggere questo articolo? Gli USA vietano Tik Tok per non perdere il controllo sull’informazione e salvaguardare la propria sovranità territoriale. Ma secondo il docente universitario e divulgatore Matteo Flora, la scelta europea di normarne l’uso è più matura, lungimirante, equa ed etica. L’intervista
Gli Stati Uniti e la Cina giocano a sfidarsi a colpi di ban. Le motivazioni di entrambe le parti riguardano “ragioni di sicurezza nazionale”. E così fioccano divieti nei confronti delle maggiori applicazioni. Pechino ha infatti vietato la possibilità di scaricare Whatsapp e Threads sull’App Store di Apple dopo che Washington ha dichiarato guerra a Tik Tok. Il social media è da tempo al centro di un fuoco incrociato. In India è stato bandito, l’Egitto ne arresta gli utenti, mentre il Parlamento europeo cerca di regolamentarizzarne l’uso.
È una battaglia tech internazionale dunque, la cui posta in gioco è il controllo dell’informazione e, di conseguenza, della sovranità territoriale dei singoli Stati. È quanto sostiene Matteo Flora, imprenditore, docente universitario e divulgatore in ambito tech interpellato da true-news.it, secondo cui la mossa degli USA “non è contro Tik Tok o la Cina nello specifico, ma contro tutte le piattaforme estere che possono minacciare la libertà di autodeterminazione del Paese”.
Il protezionismo americano non è quindi molto diverso dalle politiche cinesi in materia. Tra le due potenze tecnologiche litiganti però la “più matura ed equanime” sembrerebbe essere l’Europa, con la sua scelta di non proibire le app ma di stabilire regole comuni per il loro uso e funzionamento. “Una scommessa lungimirante e avanzata – sostiene Flora – che sicuramente rallenta l’innovazione ma tutela. Verso un mondo più etico in cui tutti hanno le stesse regole, diritti e doveri”.
Quella tra gli USA e la Cina è una guerra tech che si combatte a colpi di ban?
Non è una guerra in realtà. È partita da talmente lontano che ormai è semplicemente l’ultimo di una serie di passaggi obbligati per il Congresso americano. C’è sicuramente un conflitto a livello internazionale, legato non tanto agli assi quanto alla possibilità di creare informazione. La realtà è un oggetto socialmente negoziato e da anni ormai abbiamo perso la possibilità di decidere che cos’è vero o falso in maniera assoluta. Come sostengono i ricercatori, noi prendiamo decisioni sulla base delle fonti a nostra disposizione, che ad oggi sono principalmente i social network. Ne consegue dunque che chi controlla algoritmi di proposizione di contenuti all’interno di una rete sociale, controlla il livello di informazione. Sia sul breve termine, con piattaforme tattiche come Twitter, dove le informazioni diventano fonti giornalistiche al pari dei comunicati stampa. Sia sul lungo periodo, con piattaforme strategiche come Tik Tok, uno dei pochi social media che impatta principalmente sulle demografiche altrimenti difficilmente aggredibili: la Y Generation e la Generazione Z. L’idea che l’opinione di quelle fasce di popolazione, così importanti in quanto futuri votanti, sia gestita e manipolata algoritmicamente da un Paese straniero agli Stati Uniti fa male, a ragione. Come dimostrano le evidenze di alterazioni dell’algoritmo, di analisi e di spionaggio rispetto a una serie di giornalisti statunitensi.
Come si deve intendere l’intenzione dell’America di vietare la piattaforma cinese Tik Tok?
Il problema vero è che tecnicamente non esiste alcuna modalità con cui isolare e prevenire l’accesso negli USA di una multinazionale proveniente dalla Cina o da altrove. Basta infatti disporre di un account aziendale con una VPN. Se non esiste la possibilità di bloccare, allora bisogna fare in modo che ci sia un controllo di sovranità rispetto all’informazione e al suo accesso.
L’eventuale ban a Tik Tok da parte degli USA non è, dunque, una mossa poco democratica?
Dipende da come si intende il concetto di democratico. Se come primo emendamento e libertà di parola o come libertà di narrazione e di autodeterminazione di un Paese. In questo secondo caso, per salvaguardare i propri cittadini, uno Stato non ha molte altre possibilità se non quella di controllare il funzionamento di tutte le piattaforme secondo norme valide per tutti. Nessuno vuole infatti delle regole speciali per Tik Tok, ma nell’impossibilità di imporre regole comuni gli USA scelgono di oscurare questa e tutte le altre app esterne.
Quindi la mossa degli USA non riguarda solo Tik Tok e la Cina?
Esattamente, gli Stati Uniti ce l’hanno con tutto quello che non è americano e in quanto tale va normato. A differenza delle loro piattaforme. A mio parere, il protezionismo americano non è una battaglia contro la Cina, ma contro tutti.
Gli USA non solo i soli ad aver paura di Tik Tok, ci sono anche altri Paesi che hanno vietato o limitato l’uso di questo social. Sono mossi dalle stesse motivazioni dell’America, quindi perché la Cina non è loro alleata?
La Cina di certo non è l’amica del cuore di molte realtà, non essendo allineata in una serie di valori etici, morali o politici. Anche l’Europa, ad esempio, ha lo stesso problema con l’ingerente presenza di piattaforme americane, che però non configurano come potenziali competitors in virtù dell’alleanza all’interno dei grandi posizionamenti mondiali. Ma qualunque realtà capace di influenzare o modificare l’opinione è potenzialmente un attentato alla sovranità territoriale di ogni Stato. Indipendentemente dal fatto che sia Tik Tok, Meta o Twitter. Tutte le piattaforme dovrebbero essere sottoposte a controllo e sorveglianza se si vuole mantenere una sovranità territoriale.
Si può affermare che l’Ue con l’AI Act si sia mossa proprio in questa direzione?
Assolutamente sì, l’Europa ha stabilito norme comuni per contrastare il suo problema di servilismo rispetto ad alcune piattaforme estere, dal momento che non ne ha di locali. Così ha creato un framework di regole che determinano il comportamento di queste app quasi indispensabili per l’attuale concetto di democrazia, ma che devono assolutamente rimanere all’interno di uno scrutinio di quel potere politico ed economico che è la sovranità territoriale. Perdere il controllo sulle piattaforme d’opinione equivale a perdere il controllo sulla sovranità della narrazione e, a mio parere, anche sulla sovranità territoriale. Da questo punto di vista l’Ue è stata molto più equanime, democratica e matura rispetto agli USA. Imponendo a tutte le piattaforme provenienti da qualsiasi parte del mondo di adeguarsi a normative comuni prestabilite. Questo è il modo corretto secondo me.
Ma l’AI Act dell’Europa, in quanto norma che vale esclusivamente per l’UE, non potrebbe essere controproducente?
Dipende dal punto di vista. È sicuramente controproducente rispetto a un’innovazione veloce. Ma il punto è: cerchiamo davvero l’innovazione sopra a ogni cosa o cerchiamo un modo etico in cui vederla? Il gioco sulla scacchiera internazionale è quello tra la differenza tra l’innovazione tout court e quella legata al profilo etico sociale. Con le regole recentemente imposte l’Europa sta tentando di dare un profilo etico a determinati tipi di tecnologia. In sintesi, dunque, l’AI Act ci rallenta sì, ma tutela.
Secondo lei per l’America è più importante l’innovazione o l’eticità?
Sul breve periodo l’innovazione sopra ogni cosa per gli USA funziona meglio. Nel lungo periodo però no, e non è né etica né morale. La scommessa è tra eccellere nel breve termine o nel lungo termine.
Crede che questa scommessa l’abbia fatta anche Biden o la sua è soltanto una mossa in piena campagna elettorale?
A mio parere non è una norma elettorale, ma una sorta di realizzazione del fatto che non è più possibile esimersi da certe decisioni.
Il Presidente in carica non potrebbe però scontare un effetto boomerang?
Assolutamente sì. Ogni manovra protezionistica ha possibilmente un effetto boomerang, ma Biden lo mette in conto.
Ma imponendo il controllo con un eccessiva regolamentazione non si rischia di diventare come la Cina?
Certo che c’è questo rischio. Ma siamo sicuri che sia tecnicamente sbagliato? L’idea di base è salvare la sovranità territoriale dello Stato, anche a costo di far perire alcune piattaforme non nazionali. È esattamente quello che adesso sta facendo l’America con la cinese Tik Tok. Ma, secondo me, lo farebbe con piattaforme di qualsiasi altro Paese estero.
Quindi, secondo lei, l’Europa e l’Italia dovrebbero fare lo stesso nei confronti delle applicazioni americane?
Questa è la domanda. Non lo so. Tanti sostengono di sì. Personalmente credo che l’Europa abbia scelto la via più matura. Non possiede proprie piattaforme, non proibisce quelle estere, ma le norma. È un punto di vista estremamente lungimirante e incredibilmente avanzato. Significa credere in un mondo in cui le regole possono essere applicate davvero a tutti, senza distinzioni alcune. Creando così un campo di battaglia livellato, dove tutti hanno gli stessi diritti e doveri.