La crisi della tv generalista e le nuove forme di fruizione delle news da parte dei più giovani e non solo. Guidali (Statale Milano): “Se viene meno il confronti di opinioni, la democrazia inaridisce”. L’intervista.
La tv generalista è in crisi di ascolti (e di identità) da tempo, trascinando con sé anche i telegiornali. Per decenni la principale finestra sul mondo degli italiani, fonte principale di informazione sulla politica e l’attualità. Oggi la concorrenza dei canali on demand, delle piattaforme online e dei social modifica la dieta mediatica dei più giovani (e non solo). Impattando anche sul loro modo di informarsi sui fatti del mondo. True-news.it, dopo aver raccolto opinioni e pareri di alcuni esponenti della Generazione Z, ha chiesto un commento anche a Fabio Guidali, docente di Storia della Radio e della Televisione all’Università degli Studi di Milano. “Il declino della tv generalista è iniziato almeno da fine anni Novanta. Una questione tecnologica ma non solo. Non sono esclusivamente i giovani ad accedere all’informazione tramite i social. I rischi? Bolle sociali e polarizzazione delle opinioni inaridiscono la democrazia”. L’intervista
Professore, la tv generalista sta perdendo sempre più appeal. Quali sono, secondo lei, le cause che hanno portato all’ascesa di altre fonti di intrattenimento e informazione come i canali on-demand?
Bisogna innanzitutto ricordare un aspetto importante, si tende a parlare di «declino della TV generalista» come se si trattasse di un fenomeno recente. In realtà, la televisione “per tutti”, in grado di trovare un minimo comune denominatore di un pubblico che va dai bambini agli anziani e da Nord a Sud, è in dubbio ormai da decenni. Oggi canali televisivi che mirano all’ascolto da parte di un pubblico vasto e diversificato e che coprono con la loro programmazione generi diversi per un pubblico di massa (e non per gruppi demografici specifici) sono ormai di numero ridotto. Non solo in Italia. Si pensi che i primi segnali di calo del numero di ascoltatori risalgono almeno alla fine degli anni Novanta del secolo scorso. La responsabilità veniva fatta ricadere soprattutto sul tipo di offerta, sulla difficoltà di rinnovare in maniera fantasiosa la programmazione e di adeguarla a un pubblico in evoluzione, più maturo e attento. In realtà, già allora si intravedevano i primi segnali di uno sviluppo, parallelo a quello — comunque molto accidentato in Italia — delle nuove tecnologie, come il satellite e il digitale.
Per molti anni la televisione ha dunque subìto un passaggio tra modelli diversi, che implicava anche la moltiplicazione degli immaginari e dei riferimenti. Se guardiamo ai servizi di streaming on-demand oggi, constatiamo le conseguenze di questo lungo percorso, iniziato proprio negli anni Novanta e proseguito soprattutto grazie a Netflix e YouTube. Questi ultimi permettono infatti di accedere a contenuti numerosi e vari, tramite device diversi. Ciò è avvenuto grazie alla crescente disponibilità di connessioni ad alta velocità, che ha portato con sé un incredibile aumento di dispositivi in rete. È però solo nell’ultimo decennio che si è palesato il cosiddetto «cord-cutting». Ovvero la scelta da parte dell’utente di sostituire la visione del tradizionale mezzo televisivo con canali on-demand. La questione tecnologica è dunque centrale, ma non è sufficiente per capire questi fenomeni. Bisogna infatti considerare anche la possibilità di accedere a contenuti originali non fruibili in altro modo se non attraverso le piattaforme, che sono intrinsecamente internazionali. Garantiscono dunque una più ampia gamma di prodotti e di generi, cosa che le rende particolarmente allettanti.
Oggi, comunque, assistiamo a tendenze contraddittorie. Il mercato è ancora aperto a soggetti diversi; un soggetto come la Rai — pure in difficoltà — presenta comunque elementi di forza e di legittimazione sociale. Soprattutto all’estero, la convergenza di servizi diversi (come TV e on demand in collegamento tra loro) è ancora in grado di offrire una prospettiva di futuro. Non si può dunque affatto parlare di una netta prevalenza dei canali on-demand, ma di una convivenza di cui non conosciamo ancora gli sviluppi. Non è dunque possibile fornire risposte definitive.
Con l’avvento di internet e dei social, i telegiornali sono sempre meno seguiti. Perché i giovani in particolare preferiscono altri strumenti alla tv?
Non è vero che sono solo i giovani ad accedere all’informazione tramite i social: ormai anche gli anziani, quando dotati di smartphone, sono portati a seguire le notizie (o presunte tali) su Facebook. Di certo, i social media consentono un accesso immediato alle notizie e moltiplicano virtualmente le fonti, che possono essere personalizzate (per quanto la personalizzazione passi in realtà da algoritmi sui quali l’utente non ha controllo). Inoltre, il modello informativo è molto diverso da quello, necessariamente più serioso e paludato, dei telegiornali. Il punto è che i giovani, ma sempre più tutti i fruitori di servizi digitali, indipendentemente dall’età, sentono il bisogno di un coinvolgimento e di una rapidità indotti dagli strumenti che utilizziamo. Il telegiornale presenta, invece, una forma editoriale che poco si adatta a queste esigenze in evoluzione e alle nuove abitudini di consumo.
Tramite i social le persone si collocano in una bolla dove vengono raggiunte solamente dagli argomenti di loro interesse. Crede che questo sia un fattore importante che invece i telegiornali possono contrastare?
I rischi non sono legati solamente alle fake news e alla disinformazione, dunque a eventuali campagne di propaganda, ma anche alla polarizzazione delle opinioni, che è problematica in un contesto democratico. Infatti, la democrazia è dialogo. Se le persone trovano solo conferme continue delle loro opinioni senza possibilità di discussione a fronte di opinioni diverse, il confronto viene meno e la democrazia inaridisce. I telegiornali — ma anche i giornali — già combattono questi fenomeni, perché forniscono informazioni verificate e le inseriscono all’interno di un quadro più ampio. Eliminando così alla radice il fenomeno delle «echo chamber». Per questa ragione, non si può sfuggire alla necessità di ampliare l’alfabetizzazione all’uso dei media, promuovendo l’uso critico di qualunque strumento di comunicazione, oltre che, io credo, la multimedialità (cioè evitando la monomedialità dello smartphone).
Dove crede che dovrebbe intervenire la tv generalista per fermare il proprio declino?
La situazione italiana è molto specifica, ci sarebbe bisogno di un approfondimento relativo soprattutto al ruolo della Rai e al suo rapporto col mondo politico. Il punto vero è che qualunque mezzo di comunicazione si salva facendo affidamento sulla qualità dei contenuti da un lato, e sulla creazione di una formula specifica per un determinato target dall’altro. Ciò significa, prima di tutto, puntare sulla qualità e sull’innovatività dei contenuti. Oggi, purtroppo, vi è un oligopolio di poche case di produzione che impongono i loro programmi-format, senza una vera linea editoriale o culturale. Questo gli spettatori, prima o poi lo percepiscono. I veri investimenti sono da fare nel materiale umano, nelle idee, nelle collaborazioni, nell’alfabetizzazione mediatica. Purtroppo, però, è più facile proseguire sulle vecchie strade…