Perché leggere questo articolo? Il recente episodio di Mediglia, dove una 11enne è stata rispedita a casa perché i suoi pantaloni da basket sono stati ritenuti non consoni, riapre il dibattito sulle inadeguatezze del sistema scolastico. Corsini, professore associato di pedagogia sperimentale: “Scelta insensata, serve porsi in modalità di ascolto attivo. E che entrambe le parti si aprano al dialogo”.
È di questi giorni la notizia di una alunna di 11 anni della scuola media di Mediglia, nel Milanese, che è stata redarguita dai docenti dopo essersi presentata in classe con dei pantaloni da basket. La madre, avendo la scuola intimato all’alunna di andare a casa a cambiarsi, le ha portato un paio di pantaloni di ricambio. “Quando ho letto la mortificazione sul suo volto – ha dichiarato la donna al Quotidiano Nazionale-, ho capito che non potevo lasciare passare un messaggio così negativo. Bisogna agire con buonsenso. Nel regolamento c’è scritto che gli studenti devono presentarsi con abbigliamento consono, senza altri dettagli”.
L’episodio, divenuto di dominio pubblico, ha riaperto il dibattito, portando molti a chiedersi se questo approccio educativo-punitivo sia effettivamente funzionale, o se sia sintomo dell’inadeguatezza di un sistema scolastico che si manifesta in diversi aspetti. “La scelta è gravissima e insensata, spero questo metodo diseducativo sia l’eccezione- ha commentato intervistato da true-news.it Cristiano Corsini, professore associato di Pedagogia sperimentale all’Università Roma Tre -. È necessario porsi in modalità di ascolto attivo. Ma il dialogo deve esserci da entrambe le parti”. L’intervista.
Professore, perché braccia scoperte sì e pantaloni sino al ginocchio no? Possiamo parlare di “sessualizzazione circoscritta” del corpo?
Il problema di questa scelta è che fa riferimento a un arbitrio che non ha il coraggio di esplicitare le motivazioni alla base della norma. Lei ha parlato di sessualizzazione del corpo e sostanzialmente il focus della questione risiede lì, anche se nessuno paleserà mai questa cosa. L’origine del problema non è tanto il regolamento scolastico, quanto più la mancata spiegazione del perché contenga determinate norme. La scuola deve trasmettere il senso delle regole, che sono un aspetto fondamentale della convivenza civile, ma se elude la discussione sulla legittimità di queste regole e sul valore che rappresentano, rimane solo l’arbitrio. In questo caso l’arbitrio ha fatto da cornice all’umiliazione di un’adolescente, e ciò risulta incoerente col patto educativo. Non metto in discussione la regola, ma la sua capacità d’azione e la scelta di non esplicitare i valori che la rendono tale.
Depressione, ansia, attacchi di panico e disturbi alimentari sono comuni durante l’adolescenza e si manifestano normalmente anche tra i banchi di scuola. Come educare i giovani al riconoscimento di ciò che è “fuori da sé”, se spesso i primi a non essere educati al riconoscimento e al trattamento di queste problematiche sono gli insegnanti?
È necessario porsi nella modalità di ascolto attivo. Non bisogna mai dare nulla per scontato e imparare che il punto di vista altrui arricchisce il nostro, anche nel caso in cui noi abbiamo 50 anni e gli altri 11. Non sono uno psicologo dell’apprendimento, ma credo che in mancanza di questo il nostro sguardo resterà sempre stereotipato e scarsamente informato sulle persone che abbiamo davanti, e in campo educativo è molto grave.
Secondo lei sarebbe auspicabile proporre ai docenti degli esami di sbarramento annuali per certificare la loro idoneità ad accompagnare dei giovani nel pieno dello sviluppo psicofisico?
Non credo siano necessari esami di sbarramento annuali, ma di sbarramento iniziali sì. Ad oggi non c’è un’adeguata preparazione all’approccio metodologico e didattico sulla psicologia dell’apprendimento degli insegnanti, e il tema non è di certo incluso nei 60 cfu attuali.
Ritiene che ci siano dei pregiudizi da parte dei docenti nei confronti degli alunni, e viceversa?
Credo che da parte di alcuni insegnanti questi pregiudizi esistano, ma altrettanto posso dire da parte di alcuni studenti. L’importante è non generalizzare. Il dialogo serve a mettere in comune ciò che spesso determina delle rotture. Rappresentare i propri punti di vista a vicenda, anche in maniera franca, è importante perché permette di superare lo sguardo stereotipato, sia da una parte che dall’altra. Le relazioni educative, all’interno delle istituzioni scolastiche e universitarie, vengono troppo spesso rappresentate come una guerra, secondo il classico schema per cui lo studente cerca di fregare l’insegnante all’esame, e l’insegnante lo sa. Se questo è l’immaginario più diffuso che abbiamo, non andiamo da nessuna parte. Ci sono docenti e adolescenti che non vogliono vivere in una scuola così, perché non è possibile andare in guerra 200 giorni all’anno e soprattutto perché si sta male. I disagi nascono anche per questo.
Per ricollegarci al fatto di cronaca, forse la domanda da porsi è la seguente: perché non capire il bisogno di una ragazza che nel mese di maggio sta seduta sei ore a scuola, a Milano, in un’aula probabilmente piccola e che deve contenere una classe numerosa, e per il caldo vuole indossare dei pantaloni da basket? Il problema è che non viene rappresentato il bisogno del singolo.