Yahya Sinwar è morto. Il leader di Hamas, soprannominato il macellaio di Khan Yunis, è stato ucciso durante un raid israeliano nella zona di Tal Al-Sultan, a Rafah. La morte del leader che aveva preso le redini del comando di Hamas dopo la morta del predecessore, Ismail Haniyeh, assassinato a Teheran da un missile lo scorso luglio, cambierà lo scenario in Medio Oriente? Ne abbiamo parlato con Luigi Toninelli, ricercatore dell’ISPI. “La morte di Sinwar? Grande vittoria per Israele, ma sradicare Hamas è impossibile“. L’intervista.
Toninelli, Sinwar è morto. Cosa succede adesso?
Per rispondere a questa domanda bisogna tenere in considerazione i due poli. Sul polo israeliano, sicuramente la morte di Sinwar è una morte estremamente simbolica. È un evento di un simbolismo molto importante perché era l’ultima testa di coloro che hanno orchestrato gli attacchi del 7 ottobre, e quindi averlo ucciso in qualche modo mette un punto a quello che era il tentativo israeliano di decapitare la leadership responsabile. Sul fronte palestinese, e di Hamas in particolare, sicuramente segna un ulteriore momento di difficoltà da parte del gruppo. Tuttavia, su entrambi questi poli c’è da fare dei distinguo. Da una parte, anche se Israele ha raggiunto l’obiettivo di voler decapitare la leadership degli attacchi, dalle parole di Netanyahu, proseguirà nell’operazione e nell’invasione che sta portando avanti su Gaza. E questo in qualche modo è frutto della volontà da parte di Netanyahu di raggiungere un altro obiettivo, ovvero sradicare l’organizzazione dalla Striscia e di mettere fine all’esistenza dell’organizzazione. Un obiettivo impossibile da raggiungere per svariati motivi. Semplicemente perché Hamas è un’organizzazione complessa che è in grado di rigenerarsi laddove sussistono quegli elementi, diciamo, che favoriscono la sua esistenza: il fatto stesso che Israele porti avanti una campagna militare così violenta, il fatto che ancora ci siano campi profughi da oltre settant’anni nei territori palestinesi, e il fatto che non ci sia libertà di movimento crea all’interno di una parte della popolazione palestinese un senso di alienazione che poi può portare ad imbracciare un fucile e adottare azioni violente. Quindi, questa morte non segnerà sicuramente la fine dell’organizzazione. E quindi l’obiettivo di Netanyahu di portare avanti questa invasione senza porsi un limite che sia raggiungibile, crea dei problemi.
Chi prenderà il posto di Sinwar?
Ci sono vari nomi che vengono fatti in queste ore. Il più accreditato è Khaled Meshal, che era già stato leader di Hamas in passato. Israele aveva cercato di ucciderlo nel 1997 in Giordania, attraverso del veleno. Poi ne venne fuori un caos diplomatico e così furono costretti a consegnare alla Giordania l’antidoto per curarlo. Meshal era stato leader prima che lo diventasse Haniyeh, poi Haniyeh è stato ucciso a luglio ed era ritornato a essere leader a interim. Un altro nome forte è quello di Mohammed Sinwar, il fratello di Yahya. Oppure si parla di Khalil al Hayya, il negoziatore per il cessate il fuoco che sta a Doha. Ed è colui che ha pochi istanti fa ha confermato la morte di Sinwar.
Cosa spinge un membro di Hamas a prendere il comando dell’organizzazione sapendo di essere un facile bersaglio per Israele?
Bisogna un attimo capire come ragionano questi leader. Conoscendo persone che sono vicine a queste organizzazioni militari, la vicinanza, il senso di appartenenza e il credere realmente in una causa come quello che può essere la resistenza a Israele e la difesa del popolo palestinese, portano poi queste persone a essere disposti a dare la vita per l’organizzazione stessa. Morire in battaglia diventa quasi un segno di vanto, qualcosa che ti rende immortale sotto certi aspetti. Pensiamo ad esempio a tutto quello che sta succedendo in queste ore a Yahya Sinwar, che sicuramente non era uno stinco di santo. Alcuni lo chiamavano il macellaio di Khan Yunis. Alcuni supporter di Hamas e della causa palestinese stanno facendo dei paragoni con Che Guevara. Il fatto di essere morto vestito da militare al fronte e di non essere chiuso in un bunker, in qualche modo mitizza la figura. Penso soprattutto ad Hassan Nasrallah, e ad altri leader di Hezbollah, che sono estremamente religiosi. Loro vedono nella morte un’opportunità per poi accedere al paradiso, e quindi la vita sulla terra non è che un momento di passaggio.
Cosa farà ora Hamas con gli ostaggi? Carneficina, rilascio o mantenimento strategico?
Khalil al Hayya ha detto che gli ostaggi resteranno nella Striscia fintanto che non ci sarà una fine dell’occupazione israeliana. In molti hanno pensato che potesse in qualche modo rivalersi sugli ostaggi e fare una carneficina. Questo difficilmente accadrà. Qualcuno magari sì, perché abbiamo visto come anche lo stesso Hamas non riesce a controllare esattamente dove siano tutti gli ostaggi. Quindi, potrebbe esserci qualche morte, ma sicuramente gli ostaggi verranno tenuti perché sono l’unica arma negoziale che ha Hamas per il raggiungimento del cessate il fuoco.
E l’Iran?
Per l’Iran, la morte di Sinwar non è così catastrofica come lo è stata la morte di Hassan Nasrallah. Hezbollah, ricordiamocelo, è il junior partner dell’Iran. È molto più importante a livello strategico nella regione per l’Iran rispetto ad Hamas. Hamas è un gruppo che è stato finanziato e supportato nel corso degli anni, quando gli interessi del gruppo palestinese si sono allineati con quelli della Repubblica islamica. Hezbollah invece è stato un tramite grazie a cui la Repubblica islamica ha portato avanti le operazioni e l’allargamento delle sue alleanze all’interno di quella regione. Questo per dire che è un brutto colpo per Teheran, ma non c’è da aspettarsi una rappresaglia da parte dell’Iran. Diverso è il caso quello che potrebbe succedere nel caso di un attacco di israeliano, che dovrebbe arrivare prima delle elezioni statunitensi. Se Israele dovesse attaccare, come sembra dalle ultime indiscrezioni, solamente obiettivi militari, allora l’Iran potrebbe cercare di rispondere a sua volta senza dichiarare una guerra totale. Se invece dovessero essere colpiti i centri di produzione petrolifera, o peggio, le basi nucleari, sicuramente ci troveremmo di fronte a una guerra regionale. Al momento sembra che ci siano ancora dei margini per evitarla, speriamo che la diplomazia faccia il suo corso.