(di Luca Montani)
Che brividi, ragazzi.
Suona (forse) un tantino scontato, ma il brano di Mahmood e Blanco ha infilato una serie di record da brividi.
A partire proprio uno dei temi di fondo: il timore di essere (o percepirsi) inadeguati soprattutto quando si parla d’amore. Dare il giusto nome alle emozioni e rivendicarlo a ogni lacrima versata, a ogni muscolo contratto, per ciascun urlo soffocato: questo è il tema.
Che ci difende dal vero fascismo emozionale costruito nell’alter ego digitale. Che ci permette di essere umani prima che macchine. Che ci abilita alla vera conoscenza del mondo e delle sue regole.
Ci sono nel brano, insomma, i genobrand e i fenobrand del momento attuale ma sintetizzati con passo felpato, garbo, semplicità.
Poi ci sono i numeri, ma sono poca cosa rispetto all’emozione di fondo, il vero capitale umano di questa sfida. Comunque, eccoli, i numeri:
L’ultima sera della 72esima edizione del Festival di Sanremo è stata vista da 13.380.000 spettatori e il giorno dopo la ‘prima’ al Festival, “Brividi” di Mahmood e Blanco ha visto 3.384.192 streaming su Spotify: il brano più ascoltato di sempre. Anche YouTube è da brividi: mentre scrivo il video ha già superato le 20 milioni di visualizzazioni complessive tra il video del Festival e quello ufficiale del brano.
Viene solo da bene-dire quest’autopromozione della sofferenza subita, la cui intensità emozionale, nella sua semplicità linguistica, è disarmante. Autentica e vivida, proprio come l’esperienza del sé sociale della face down generation, dove le emozioni spesso non trovano interpretazione, decodifica, uso.
Noi tossici digitali che non siamo altro e che dipendiamo dalle compensazioni dei ‘like’ o dei ‘dislike’, alla ricerca di protesi per la gestione delle sensazioni fisiche, “nudi come i brividi”, immersi in “un mare dove non tocchi mai”, alla ricerca di una “via di fuga dal mondo”.
Noi, che abbiamo un arredo cognitivo fragile, per niente abituati a rivendicare di aver “sognato di volare con te su una bici di diamanti”, fragili e perennemente incerti anche quando “ti vorrei amare, ma sbaglio sempre”.
E via così. Che figata.
“Nudo con i brividi. A volte non so esprimermi”.
Broadcast yourself, coraggio! Potrei dire anche “I’m lovin’ it” per ingraziarmi la generazione Z. Ma è poco, troppo poco, perché “questo veleno che ci sputiamo ogni giorno” ci deve spingere a trovare mondi sociali possibili.
Qui c’è anche il tema dell’identità – anzi della ‘diventità’ – dove ogni giorno guadagniamo nella certezza che le singolarità sono eccezionali a condizione che possano rendersi udibili, raccontabili, confrontabili. È il lusso della giustizia sociale, in fondo, dove ciascuno possa trovarvi una collocazione genuina e non sorniona e finta.
Ma la sfida – quella vera – è ora, è qui.
Nella big family, dove siamo insieme vlogger e prosumer (qualche volta semplici lurkers), abbiamo il compito di riconoscerci (anche se fragili, soprattutto se fragili).
“Ma loro fanno solo musica”, sentivo dire da una loro coetanea.
Nient’affatto.
Con miliardi di stream, dischi di platino, dischi d’oro, fan a crepapelle, vive in loro una naturale propensione (che diventa protensione) a suscitare emozioni. E questo sì, che li impegna e fino in fondo, tanto da chiederci se ne saranno all’altezza.
Comunque, bravi loro che ci chiedono – e si impegnano – a riconoscere le emozioni, con capacità immaginative e introspettive nuove, coraggiose, audaci.
“E tu, sei il contrario di un angelo e tu, sei come un pugile all’angolo”. Persino nell’industria 4.0, nella robotica emozionale, c’è più organico di quanto non sembri, c’è creatività, c’è intelligenza artificiale.
Ma non voglio parlare di neotot, voglio parlare di loro, Mahmood e Blanco e della loro bellezza.
E di noi tutti che ci meravigliamo di loro perché bravi, veri e vivi.
Che brividi, ragazzi.