(Adnkronos) – Il salario minimo non è la soluzione alle basse retribuzioni e allo sfruttamento, meglio puntare sulla contrattazione collettiva. E’ quanto emerge dal documento ‘Salario minimo in Italia: elementi per una valutazione’ elaborato dalla Fondazioni studi consulenti del lavoro sulla base di dati Inps e Cnel e diffuso oggi. Un focus che si inserisce nel dibattito politico sull’introduzione di un minimo retributivo legale, scaturito dalla direttiva comunitaria 2022/2041. Dopo aver chiarito come questa non prescriva ai Paesi membri l’introduzione di un salario minimo per legge, ma privilegi anzi proprio il criterio della contrattazione collettiva, l’analisi ha preso in rassegna 63 contratti collettivi, selezionati tra i più rappresentativi, individuando per ciascuno il minimo retributivo previsto per il livello di inquadramento più basso comprensivo dei ratei di mensilità aggiuntiva (13a mensilità ed eventuale 14a) nonché la quota di tfr, che costituisce una retribuzione differita. il risultato è che oltre la metà dei ccnl analizzati è superiore alla soglia dei 9 euro: 39 sono al di sopra, 22 al di sotto. Di questi ultimi, 18 sono compresi tra gli 8 euro e gli 8,9, mentre i restanti 4 (industria delle calzature, settore privato dell’industria armatoriale, industria del vetro e delle lampade, operai agricoli e florovivaisti) sono tra i 7 e i 7,9 euro.
Il ccnl vigilanza privata è addirittura inferiore. A fronte di una comprovata esigenza di adeguamento delle retribuzioni, dal Documento emerge come l’introduzione di un salario minimo legale, anziché rappresentare la soluzione, comporterebbe alcune controindicazioni: in primis, la marginalizzazione del ruolo della contrattazione collettiva, che in Italia è stata largamente usata per garantire a ciascun lavoratore le giuste tutele idonee al suo specifico impiego. Inoltre, potrebbe risultare un intervento semplicistico rispetto all’effettiva tutela del trattamento globale, economico e normativo dei lavoratori, ben più elevata del salario minimo tabellare. Infine, è estremamente limitante che non riguardi anche i collaboratori domestici, che più faticano a raggiungere un emolumento dignitoso. Oltre a ciò, la previsione di una simile misura determinerebbe un innalzamento del costo del lavoro a carico delle aziende con effetto trascinamento su tutti i livelli retributivi più alti del minimo, con il rischio di un effetto ‘immersione’ in quei settori incapaci di assorbire l’incremento retributivo previsto.
E’ alle parti sociali, quindi, che il documento attribuisce la capacità di sviluppare in modo completo le azioni più coerenti sia per la fissazione del salario, sia per la difesa della dignità dei lavoratori. Dall’analisi, d’altronde, emerge che il parametro minimo dei 9 euro viene superato anche togliendo dal computo salariale gli scatti di anzianità e le indennità contrattuali fisse e continuative. Elemento, questo, frutto dell’attività della contrattazione collettiva, che ha correttamente svolto il proprio ruolo di mediazione sociale lavoristica, ponendosi come lo strumento migliore per garantire la gradualità nell’aumento delle retribuzioni minime. Di contro, un innalzamento repentino, introdotto per legge, rischierebbe di mettere in crisi le aziende. Per i contratti al di sotto dei 9 euro orari, la soluzione suggerita è di prevedere che retribuzione e trattamento normativo contrattuale dovuto non siano complessivamente inferiori a quelli previsti dai ccnl comparativamente più rappresentativi in vigore per il settore in cui il datore di lavoro opera; oppure, in assenza di questi, di fare riferimento ai parametri retributivi e normativi contenuti nel ccnl maggiormente affine.