(Adnkronos) – Sono casi diversi, eppure hanno evidentemente una stessa origine. I commenti sessisti in tv e sui giornali, che qualcuno prova a derubricare a chiacchiere da bar, hanno un tratto in comune: giornalisti e commentatori hanno perso la capacità di adeguarsi al contesto in cui parlano e scrivono. Non vuol dire solo fare ricorso all’autocontrollo, o all’autocensura quando serve, ma vuol dire anche sottrarsi alle abitudini che hanno sviluppato per stare sui social network, per intercettare like e mi piace, per trovare consenso facile.
Le battute nel backstage della Formula 1, come successo su Sky, la telecronaca di una gara dei tuffi, come successo in Rai, hanno in comune un problema che riguarda non solo i colleghi coinvolti ma un approccio su cui è il caso di riflettere andando oltre i singoli errori. Così come, pure in una veste diversa, la frase che è costata a Filippo Facci la conduzione di un programma in Rai è il prezzo, alto, pagato per aver sottovalutato il peso e il valore delle parole.
Non si può dire o scrivere qualsiasi cosa, quando ci si rivolge professionalmente a un pubblico, a un’audience, a meno che non si accetti che sia completamente saltata l’intermediazione di chi, con un microfono o una penna in mano, ha il compito di raccontare e descrivere, o anche commentare, eventi, fatti, che siano sport o cronaca, politica o economia.
La deriva social è soprattutto la ‘socializzazione’ di qualsiasi altro contesto. E fa danni soprattutto a chi fa informazione per mestiere, perché chi fa informazione ha il privilegio, ma anche la responsabilità, di scegliere le parole. Qualcuno la legge come una forzatura perbenista ma la capacità di mettere insieme la libertà di espressione e il rispetto delle persone, e di chi ascolta e legge, resta una priorità assoluta per il giornalismo. Poi, si può sempre sbagliare. Ma non riconoscere l’errore vorrebbe dire abdicare definitivamente alla mediazione, e senza media restano i social network. Dove vale più o meno tutto. (Di Fabio Insenga)