(Adnkronos) – Addio a Harry Belafonte, il re del calypso, che con le sue canzoni degli anni ’50 e ’60 ha reso popolare in America e in Europa il genere musicale afroamericano, originario delle Antille, e che al tempo stesso contribuì a infrangere le barriere sociali con i ritmi dei Caraibi: grazie al successo del suo grido a cappella di “Day-O! (The Banana Boat Song) del 1956 divenne un alleato chiave del reverendo Martin Luther King durante la lotta per i diritti civili. Il cantante e attore statunitense è morto oggi a New York, nella sua casa nell’Upper West Side di Manhattan, all’età di 96 anni. La causa del decesso è stata un’insufficienza cardiaca congestizia, ha dichiarato il suo portavoce Ken Sunshine.
Belafonte – nato come Harold George Bellafanti Jr il 1° marzo 1927 nel quartiere newyorchese di Harlem da genitori giamaicani e cresciuto in povertà – ha usato la sua fortuna nel mondo dello spettacolo per aiutare a finanziare il movimento per i diritti civili in patria e le cause per i diritti umani in tutto il mondo, ed in particolare in Africa, tanto da essere nominato nel 1987 ambasciatore dell’Unicef. È stato il primo afroamericano a ricevere il Kennedy Center Honors nel 1989, è stato insignito della National Medal of Arts nel 1994 dalla Casa Bianca e il Grammy Lifetime Achievement Award, premio alla carriera, nel 2000. E’ stato sposato tre volte: il secondo e terzo matrimonio sono stati con donne bianche, Julie Robinson, con cui è stato legato dal 1957 al 2008, e Pamela Frank, la sua attuale moglie. Dai suoi matrimoni sono nati quattro figli: Adriene, David, Gina e Shari
Belafonte iniziò a cantare nel 1949 come crooner guadagnando i soldi di cui aveva disperatamente bisogno per mantenere la sua famiglia. Nel frattempo, trovò un mentore nell’intrattenitore afroamericano Paul Robeson, un attivista di primo piano per i diritti civili e sindacali, perseguitato dalle autorità federali per le sue presunte simpatie socialiste. Spinto da Robeson, Belafonte iniziò a usare canzoni folk per denunciare il razzismo, la povertà e altri mali sociali. Nel 1952 incise per la Rca Victor il suo primo singolo, “Matilda” e il primo album fu “Belafonte” del 1956. Il cantante divenne famoso con “Calypso”, sempre del 1956, che riadattava le melodie delle isole caraibiche per gli ascoltatori americani: l’album, che fu venduto in oltre un milione di copie, comprendeva molte delle canzoni con cui sarebbe stato identificato per sempre, come “The Banana Boat Song”, la ballata “Jamaica Farewell”, “Come Back Liza” e “Man Smart (Woman Smarter)”. La sua registrazione dal vivo “Belafonte at Carnegie Hall” (1959), che metteva in risalto la musica folk di tutto il mondo, fu un trionfo commerciale e artistico che rimase nella classifica Top 10 di Billboard per più di tre anni. In quel periodo fu un rivale di Elvis Presley nella classifica della musica pop e generando un interesse mondiale per la musica dal sapore caraibico.
Belafonte ha vinto i Grammy Awards per le sue registrazioni folk “Swing Dat Hammer” (1960), “At Home and Abroad” (1961) e “An Evening With Belafonte/Makeba” (1965), quest’ultima con protagonista la sua protetta, la cantante sudafricana Miriam Makeba, di cui lanciò la carriera. Il suo album del 1962 “The Midnight Special” diede una spinta alla carriera di un giovane armonicista, Bob Dylan (quando ancora si chiamava Robert Zimmerman), che allora stava facendo una delle sue prime registrazioni.
Belafonte è entrato anche nella storia di Hollywood, al pari di Sidney Poitier, per essere stato uno dei primi attori afroamericani ad uscire dai ruoli stereotipati e avvilenti. Debuttò al cinema in “Bright Road” (1953), nel ruolo di un preside di scuola al fianco di un’insegnante interpretata da Dorothy Dandridge. I due si riunirono in “Carmen Jones” (1954) di Otto Preminger, con Belafonte nel ruolo di un soldato che si innamora di una donna tentatrice.
Belafonte non era soddisfatto di fare film perché riteneva che gli studi cinematografici non si spingessero abbastanza in là nel presentare l’amore interrazziale in modo realistico. La trama del dramma apocalittico “La fine mondo” (1959) non prevedeva baci tra lui e la bionda Inger Stevens e questa decisione indign Belafonte. Dopo l’insuccesso commerciale di “Strategia di una rapina” (1959) di Robert Wise, un teso dramma di rapine in banca e relazioni razziali di cui fu protagonista e co-produttore, lasciò il cinema per più di un decennio. Tornò a recitare diretto dall’amico Poitier in “Non predicare… spara!” (1972) e “Uptown Saturday Night” (1974). La carriera cinematografica sporadica è stata rilanciata dal regista Robert Altman che lo ha voluto nel cast di “I protagonisti” (1992), “Prêt-à-Porter” (1994) e infine “Kansas City”: quest’ultima apparizione è ritenuta la miglior interpretazione di Belafonte, con cui ha vinto il New York Film Critics Circle Award come miglior attore non protagonista.
Confidente del reverendo Martin Luther King dal 1956, Belafonte ha svolto per anni un ruolo di collegamento tra il movimento per i diritti civili e le capitali dello spettacolo, Hollywood e New York. Ha anche usato il suo potere per promuovere la lotta anti-apartheid in Sudafrica e gli aiuti per la carestia attraverso iniziative come la registrazione di “We Are the World” per l’evento mondiale “Usa for Africa” del 1985.
Belafonte ha dichiarato di aver trascorso la sua vita “in un costante stato di ribellione”. Ha rimproverato aspramente i presidenti americani – democratici e repubblicani – per non aver fatto abbastanza per porre fine alla povertà negli Stati Uniti o ai conflitti all’estero. Ha criticato la Casa Bianca di George W. Bush per l’invasione dell’Iraq nel 2003 e ha suscitato scalpore quando ha paragonato Colin Powell, allora segretario di Stato, a uno “schiavo domestico”. Ha anche criticato il primo presidente afroamericano degli Usa, osservando che “per tutta la sua morbidezza e il suo intelletto, Barack Obama sembra mancare di una fondamentale empatia con i diseredati, siano essi bianchi o neri”. Belafonte è stato aspramente criticato per aver sostenuto il dittatore cubano Fidel Castro e il presidente venezuelano Hugo Chávez. “Non ero un artista che era diventato un attivista”, amava dire Belafonte. “Ero un attivista che era diventato un artista”.
Virile e muscoloso, con un sorriso irriverente e una voce roca, Belafonte è diventato famoso negli anni Cinquanta grazie a una sensualità audace, che ha sfidato i tabù sessuali in un’epoca di segregazione razziale. In concerto e in televisione, si presentava al pubblico indossando camicie timidamente sbottonate che aderivano ai contorni del suo fisico.
È stato il primo nero a vincere un Tony Award a Broadway, per la sua interpretazione della musica popolare americana e caraibica nello spettacolo “John Murray Anderson’s Almanac” del 1953. Sei anni dopo, fu il primo produttore afroamericano a ricevere un Emmy Award per “Tonight With Belafonte”, uno speciale della Cbs che presentava la storia della vita dei neri americani attraverso la musica.
Come uno dei principali benefattori di Martin Luther King, Belafonte usò le sue amicizie con Frank Sinatra, Marlon Brando, Lena Horne e Henry Fonda per raccogliere più di 100.000 dollari per finanziare le Freedom Rides del 1964, che sfidavano la segregazione razziali nei trasporti.
Portò anche Brando, Charlton Heston, Paul Newman e Tony Bennett alla Marcia su Washington, dove King pronunciò il suo memorabile discorso “I Have a Dream” nel 1963. Contribuì a fondare TransAfrica, un gruppo di pressione che sollecitava sanzioni economiche contro il regime di apartheid del Sudafrica. Ha fatto pressione per il rilascio di Nelson Mandela e ha contribuito a coordinare la prima visita del futuro presidente sudafricano negli Stati Uniti dopo la sua liberazione nel 1990.
Motore della canzone “We Are the World” nel 1985, Belafonte ha affidato i riflettori musicali ad artisti come Michael Jackson e Lionel Richie, relegando se stesso al ruolo di coro all-star. Il progetto ha raccolto decine di milioni di dollari per forniture mediche e alimentari, e Belafonte ha partecipato all’ardua missione di consegna degli articoli agli operatori umanitari in Sudan e in Etiopia. (di Paolo Martini)