(Adnkronos) – “Nei primi 6 mesi del 2023 siamo già scesi e il record negativo dei 393 mila nati dell’anno scorso” dopo il Covid, “saranno superati, al ribasso. Da un po’ di anni l’Italia ha più morti che nati. Da un milione abbondate di nati negli anni 60, si arriva, dopo una forte decrescita, ai 570mila nel 2008 e da qui in poi, ogni anno nascono sempre meno bambini”. Così Gian Carlo Blangiardo, già presidente Istat e professore emerito di Demografia all’Università di Milano Bicocca, intervenendo oggi, alla Camera dei deputati, al convegno “Natalità work in progress”.
A parità di condizioni – produttività e partecipazione al lavoro ecc.invariati – il solo effetto demografico, cioè “il numero di abitanti in età lavorativa – osserva Blangiardo – comporterebbe una perdita di Pil, in una ventina d’anni, di 500 miliardi di euro. Questo avviene in un contesto in cui ne servirebbero di più purché 840mila ultra 90enni di oggi diventeranno 2,2 milioni di ultra novantenni, di cui 150mila circa, ultra centenari. In un Paese di questo tipo si devono quindi trovare risorse nuove, visto che la parte sanitaria ha costi particolarmente importanti”. In prospettiva, “è difficile pensare a un cambiamento dall’oggi al domani – spiega l’esperto – La Cina per esempio, è passata da 30 milioni di nati, su imposizione a sotto i 10 milioni. Vogliono rialzare il valore, ma non so se riusciranno. C’è un elemento culturale da considerare. I 240mila nati nel primo trimestre durante la seconda guerra” mondiale in Italia “e i 90 mila di oggi sono il significato del cambiamento avvenuto sotto vari punti di vista. Dopo che per decenni si è lavorato in direzione opposta, è difficile invertire la tendenza, ma non dobbiamo perdere la speranza, perché si può fare”.
Bisogna tenere conto, “in anticipo, delle dinamiche in atto – sottolinea Blangiardo – e mettere a punto i correttivi necessari per governarli. Sull’età anagrafica abbiamo costruito degli equilibri sociale ed economici. C’è un’età per formarsi, per essere produttivi e una per riposarsi. Quelli in mezzo devono produrre risorse. Se la coda superiore va a crescere pesantemente, è evidente che si alterano gli equilibri, e si creano dei problemi. C’è poi un impatto anche sulla democrazia: più gli anziani sono e più contano nelle scelte politiche. L’essere un grande Paese – conclude – dipende anche dal numero della popolazione”.
“Nel 2070 si prospetta un’Italia con 10,5 milioni di residenti in età produttiva (20-64enni) in meno rispetto a oggi. Proprio perchè lo sappiamo, dobbiamo governare il cambiamento per fare in modo che gli effetti siano ammorbiditi”. ” Qualcuno dice di compensare con l’immigrazione – osserva l’esperto – Se vogliamo procedere così, limitandoci a un’analisi dei prossimi 20 anni, con la sola immigrazione avremmo bisogno di 531mila immigrati netti ogni anno. Il che vuol dire dare integrazione. Non basta farli arrivare: bisogna dare lavoro e altro. La soluzione migratoria, anche se utile, è un contributo importante, ma non risolutivo”.
C’è una questione di risorse da considerare. Il passaggio da “ 800mila ultra 90enni a oltre 2 milioni” in una ventina d’anni “è un cambiamento sotto gli occhi di tutti – ricorda Blangiardo – basta guardare per la strada il numero delle carrozzine e degli adulti, maturi. Si vedranno più deambulatori e meno carrozzine, meno fratellini camminare per mano. Ci sarà una famiglia fragile, debole che avrà bisogno di aiuto dall’esterno. Ma – riflette l’esperto – non è detto che le risorse per il welfare pubblico ci siano. Dovremmo immaginare equilibri che possono valorizzare le competenze e l’esperienza della terza età, dove non serve la forza fisica”.
Le cause del crollo demografico sono tante, c’è anche una questione culturale. “Un fattore importante – sottolinea Blangiardo – è la struttura della popolazione. I 184mila nati in meno rispetto al 2008 sono, nei due terzi dei casi non sono dovuti al non volere bambini, ma è cambiata la struttura della società femminile. Abbiamo meno mamme in età produttiva. Oggi sono 12 milioni le donne in età feconda, ma fra 30-40 anni saranno 8 milioni. Poi dobbiamo mettere altri elementi di struttura: i figli costano, impegnano, hanno bisogno di cura, rendono difficile la carriera e il lavoro. I 393mila nati dell’anno scorso – riflette – circa la metà sono femmine, quindi sono 200 mila scarse le mamme di domani. Se seminiamo con questi numeri avremo una struttura estremamente debole, a meno di fare 5 figli per donna”.
“Il passaggio al secondo genito è fondamentale. La Cina, per ridurre la popolazione, diceva di fare figli tardi, distanziati e di meno. Noi dovremmo fare esattamente il contrario e dire: fateli prima, distanziateli meno e cercate di farne un pochino di più”. Per questo “il passaggio al secondogenito è fondamentale”.
“Oggi – spiega l’esperto – nella fascia tra 30-34 anni, il rapporto tra coloro che sono figli in famiglia e coloro che hanno una famiglia autonoma è di 5 a 1. Il passaggio da figli a genitori è di 3 a 1. Siamo in una situazione in cui l’uscita dal nido, per mille motivi, è difficile. Dobbiamo aiutare i giovani a uscire dal nido e crear loro le condizioni perché possano ‘osare’ la scelta della genitorialità. La mia generazione – rimarca Blangiardo – ha fatto i figli nella precarietà. Devi scommettere su te stesso e sul futuro. Dobbiamo trasmettere il senso del rischio ai nostri giovani. E’ dal 1977 – racconta il demografo – che la popolazione italiana è sotto il livello di ricambio generazionale. Sono più di 40anni. Già negli anni 80 e 90 dicevamo le stesse cose di adesso. Ma a differenza di allora, adesso – sottolinea Blangiardo – la cosa è diventata di rilievo, mentre prima si liquidava con un ’vedremo’. A questo punto gli italiani cominciano a sapere e il governo è sensibile all’esistenza di questo problema: un grande passo”.
Concretamente, oltre all’aiuto “sul piano economico – conclude Blangiardo – bisogna soprattutto riuscire a dare anche alle donne con figli la possibilità dir realizzarsi nel lavoro. Dobbiamo avere tutti la consapevolezza che stiamo vivendo un’emergenza e che esiste una solidarietà, far crescere la cultura che il capitale umano è nell’interesse collettivo, anche con un atteggiamento amichevole nei riguardi di chi mette al mondo dei figli”.