(Adnkronos) – C’è ancora “molto da fare” per garantire adeguato supporto e assistenza ai bambini intersex e accompagnarli nella crescita, mentre diventano adolescenti e poi approdano all’età adulta. C’è ancora “molto da fare” per garantire loro benessere, e cure ritenute soddisfacenti dalla totalità delle persone che convivono con disturbi della differenziazione sessuale (Dsd) o, come si preferisce chiamarle, differenze dello sviluppo del sesso o ancora variazioni delle caratteristiche del sesso. Un mondo molto eterogeneo e complesso di condizioni, che pone “un problema di sanità pubblica” ancora irrisolto, ammettono gli specialisti che se ne occupano. Del nodo delle ‘transitional care’ – assistenza di raccordo che traghetta il paziente dalla fase pediatrica a quella adulta – si è discusso in questi giorni all’ospedale San Raffaele di Milano in occasione di un seminario sui Dsd, condizioni rare – ma non troppo – nelle quali vi è un anomalo sviluppo del sesso cromosomico, di quello gonadico e infine di quello fenotipico (interessano complessivamente circa un bambino ogni 4.500 nati).
Un appello, espresso da Giuseppe Cretì, presidente della Siup (Società italiana di urologia pediatrica), è rivolto alle istituzioni: “Dobbiamo elaborare un piano innovativo di cure transizionali, e questa è una sollecitazione anche alla politica. Serve una medicina moderna per queste persone. In generale, il 60% degli adolescenti con cronicità non riceve cure di transizione”. Sullo sfondo ci sono il carico di sofferenza che accompagna queste patologie, storie di pazienti una diversa dall’altra e non generalizzabili, le rivendicazioni degli attivisti che portano sul tavolo le due ammonizioni indirizzate dall’Onu anche all’Italia sulle mutilazioni genitali intersex. Una spia della complessità della questione della corretta assistenza da garantire a queste persone, e della complessità di una categoria sotto il cui ‘ombrello’ finiscono esigenze di salute e bisogni legati al benessere mentale e sociale.
Sono situazioni cliniche a volte difficili da gestire, in particolare in quei casi in cui l’attribuzione del sesso fenotipico risulta incerta. A esprimere la necessità di affrontare queste problematiche in maniera strutturata e personalizzata, per adattarsi a tutto il range delle esigenze di cui queste persone sono portatrici, sono gli stessi specialisti, che si muovono dentro un settore in evoluzione sull’onda del progresso della medicina e delle sensibilità che cambiano. “I progressi nel trattamento delle grandi patologie urologiche pediatriche hanno determinato un’estensione delle aspettative di vita – osserva Cretì – E questo comporta necessità assistenziali che devono essere prese in carico da specialisti dell’età adulta. La transizione tra queste due fasi è un elemento chiave”.
“L’assistenza deve essere multidisciplinare. Con sostegno anche in campo sociale – prosegue Cretì – In Italia non esistono progetti strutturati standardizzati. C’è un’assenza in ambito territoriale e ospedaliero di programmi a lungo termine. Oppure ce li facciamo ‘in casa’, ognuno in maniera personale. Ma non c’è istituzionalmente nessuno che chiama a un tavolo tecnico gli specialisti dell’età pediatrica e adulta e dice: facciamo un piano. Con conseguente disagio e sfiducia del paziente e delle famiglie, che tra l’altro vanno coinvolti come parte attiva”.
“Una transizione che fallisce – riflette Arianna Lesma, responsabile di Urologia pediatrica dell’Irccs ospedale San Raffaele di Milano – può avere conseguenze catastrofiche, perché il paziente inizia a eseguire meno controlli, perde interesse nella tempistica degli esami, è meno attento a terapie che deve seguire e si rischia di rovinare magari tanti buoni risultati ottenuti in età pediatrica dal punto di vista endocrinologico, così come di andare incontro a nuove patologie, osteoporosi o tumori, per non parlare dell’aspetto psicologico di non trovare riferimenti per l’età adulta: il rischio è di sentirsi isolati”. C’è, insomma, quella che viene definita “una terra di mezzo”, ancora poco popolata, che deve essere abitata da specialisti formati (urologi, endocrinologi, genetisti, ginecologi, andrologi, psicologi) e centri esperti.
E ci sono aspetti pratici con cui misurarsi. Uno, per esempio, lo evidenzia Andrea Salonia, urologo e andrologo dell’ospedale San Raffaele e professore associato dell’università Vita-Salute San Raffaele: “Noi abbiamo cominciato da poco ad occuparci del problema” della transizione dall’età pediatrica a quella adulta “al maschile. Implica aspetti meno evidenti, molto più sottaciuti e dal punto di vista psicologico fortemente invalidanti. Occupandomi di difficoltà genitoriale, spesso mi trovo ad affrontare casi di pazienti che arrivano e non sanno di avere una problematica genetica alla base. Va detto che è in questi ultimi 30 anni che si è sviluppata una sensibilità a un problema che è molto complesso. Stiamo imparando, e vanno considerati anche aspetti come la salute dell’osso e il tema cardiologico che finora non sono stati presi in considerazione”.
Serve una rete, indicano gli specialisti, e supporto per le persone intersex-Dsd da Nord a Sud. “Oggi ci sono sporadiche risposte operative e abbiamo 20 sanità regionali – osserva Cretì – In una survey nazionale che abbiamo condotto nel 2018 in 20 centri di urologia pediatrica, alla domanda se c’è per le patologie urologiche ad alta complessità un programma operativo di transizione, il 70% ha risposto di no. Le mie proposte sono di creare un gruppo di lavoro misto pediatrico-adulto per costruire un modello di transizione, sottoporlo a pazienti e famiglie e attivarlo con un adattamento alle singole specificità dell’individuo. Vanno identificati però dei ‘Lea (Livelli essenziali di assistenza) della transizione’, perché non può esistere sul territorio nazionale un posto dove nessuno sa cosa sia questo processo. Serve almeno un approccio iniziale di cura, per poi riferire il paziente a centri hub identificati. E occorre investire in formazione”.
Il passaggio di cure dagli specialisti pediatrici a quelli dell’adulto “è un processo che si costruisce con gli anni, che l’équipe costruisce con famiglia e paziente, e che prosegue – fa notare Lesma – Noi abbiamo cercato di sviluppare una proposta di transitional care, valutando la letteratura, confrontandoci con altri specialisti e raccogliendo le necessità espresse dai pazienti che abbiamo sondato. La nostra proposta si sviluppa in 4 stadi. I primi tre avvengono in sede pediatrica: si individuano i pazienti che possono cominciare questo passaggio e se ne parla con le famiglie iniziando a preparare una relazione da offrire agli specialisti dell’adulto; poi si fa una visita congiunta con i due team, alla presenza anche delle famiglie. In questa occasione il paziente viene ascoltato nelle sue esigenze e richieste e vanno poi stabiliti gli accertamenti da eseguire, terzo step e ultimo in ambiente pediatrico”.
Quindi, conclude Lesma, “l’ultimo passo è il passaggio del paziente in campo adulto”, con specialisti che si differenziano a seconda della persona da seguire e del modo in cui è cresciuta. “Non esiste un’età per il passaggio del testimone – fa notare infine l’esperta – dipende da quando il paziente è pronto e questo può avvenire a 16 anni, come tardare fino a 21 anni. Ora ci proponiamo di capire sempre di più cosa pensano i nostri pazienti del nostro operato. I programmi dovranno essere sempre più su misura. E dobbiamo migliorare le informazioni dal punto di vista psicologico, della sessualità e della capacità riproduttiva. Altro obiettivo è iniziare una cooperazione multicentrica”.