(Adnkronos) – “L’epatite Delta è una epatite virale sostenuta dal virus dell’epatite Delta (Hdv) che vive solo in presenza del virus dell’epatite B (Hbv) che lo supporta nella sua diffusione nel fegato, quindi è una co-infezione. Noi dobbiamo ricercare l’infezione da Hdv nel soggetto HBsAg positivo”, cioè con infezione da Hbv. “Il problema è che il soggetto HBsAg positivo che contrae l’infezione delta ha una malattia di fegato molto più rapida, molto più evolutiva, quindi dal punto di vista clinico l’epatite Delta è un’epatite seria, rapidamente evolutiva che può portare alla cirrosi in tempi molto brevi”. Lo ha detto Maurizia Rossana Brunetto, direttore UO Epatologia, Azienda ospedaliero universitaria pisana, a latere dell’incontro dal titolo “L’emersione del sommerso delle malattie infettive in Italia: modelli organizzativi a confronto”, dedicato all’approfondimento di prevenzione, screening e ‘linkage to care’ in virologia, promosso da Gilead Sciences, e realizzato ad Arezzo nell’ambito del Forum risk management.
“Il medico che osserva il soggetto HBsAg positivo – continua la professoressa – deve sospettare la possibilità di un’infezione Delta”. Questa criticità “si può risolvere semplicemente ricercando gli anticorpi contro questo virus, l’anti Delta: se questi sono positivi dovrà ricercare la presenza di un’infezione attiva – ricercando l’Hdv Rna – e, se il soggetto sarà Hdv Rna positivo, dovrà essere valutato dall’epatologo per escludere o confermare la presenza della malattia di fegato”.
L’epatite Delta “è stata scoperta in Italia dal professor Rizzetto negli anni ’70 e per tutti gli anni ’80 e ’90 c’è stata grandissima attenzione di questa malattia – spiega Brunetto – perché sino al 26% dei portatori di Hbv erano antidelta positivi”, quindi avevano l’infezione. “In quell’epoca ci fu un’epidemia di Hdv in Italia. Negli anni successivi grazie anche a misure preventive e alla vaccinazione, i nuovi casi Delta si sono ridotti e, gradualmente, si è persa l’attenzione nei confronti di Hdv”. Oggi “dobbiamo recuperare la memoria di questa condizione – sottolinea l’epatologa – perché nella popolazione dei migranti abbiamo quote anche molto elevate di soggetti con infezione Delta”. Queste persone “vivono in Italia e dobbiamo quindi identificare i soggetti malati per seguirli nel tempo e, speriamo, per trattarli con i farmaci che disponiamo, e dei quali disporremo a breve, che si stanno dimostrando altamente efficaci nel controllare l’evoluzione della malattia”, conclude Brunetto.