(Adnkronos) – “Per anni abbiamo trattato la colangite biliare primitiva (Pbc) soltanto con l’acido ursodesossicolico (Udca) che continua a essere il farmaco di prima linea. Tuttavia, da oltre due anni abbiamo a disposizione un farmaco di seconda linea che è l’acido obeticolico che ci ha consentito di ottenere una risposta in quella percentuale di pazienti che non riuscivamo a trattare soltanto col primo farmaco. Inoltre, sono in corso diversi studi promettenti anche sull’utilizzo della classe di farmaci ‘fibrati’, per cui a breve avremo la possibilità di gestire al meglio anche quei pazienti che non rispondono ai farmaci di prima linea”. Così all’Adnkronos Salute Vincenza Calvaruso, segretario nazionale dell’Associazione italiana per lo studio del fegato (Aisf), oggi a margine della conferenza stampa nella sala Nassirya del Senato per sensibilizzare su una malattia rara del fegato, autoimmune e cronica che ha un forte impatto negativo sulla qualità di vita di circa 20mila italiani, in particolare donne trai 40 i 60 anni.
Durante la conferenza stampa, promossa su iniziativa del senatore Ignazio Zullo della X Commissione (Affari sociali) è stato presentato ‘Colangite biliare primitiva (Pbc). Best practice italiane: la storia dei protagonisti’, volume che racconta le singole esperienze territoriali realizzate, le modalità di creazione dei singoli modelli e l’impatto sulla vita delle persone che ne hanno beneficiato, per garantire su tutto il territorio nazionale equità di accesso a cure precoci e adeguate e di presa in carico e migliorare la qualità dei servizi offerti alle persone con la patologia. Il volume è stato realizzato in collaborazione con FB&Associati e con il contributo non condizionante di Advanz Pharma.
Per una migliore presa in carico dei pazienti con malattie epatiche, il modello da valorizzare è quello delle Reti patologiche, “in particolare per i pazienti con colangite biliare primitiva. Sono strumenti fondamentali che negli ultimi anni abbiamo imparato a implementare – sottolinea Calvaruso – Permettono infatti a tutti i centri che si occupano di malattie del fegato, dai più grandi ai più piccoli, distribuiti sul territorio, di ottenere lo stesso sistema standard di diagnosi e di cura dei propri pazienti che così possono essere seguiti e curati nel posto più vicino a casa loro”. Non solo. “Le Reti patologiche – conclude – ci consentono di effettuare gli esami che per esempio nei centri più piccoli non vengono eseguiti, i pazienti così possono essere mandati nei centri più grandi. Le Reti patologiche, da questo punto di vista, hanno davvero cambiato l’approccio della presa in carico di questi pazienti”.