(Adnkronos) – In Italia, stima l’Aiom, Associazione italiana di oncologia medica, nel 2022 avremo 55mila casi di tumori alla mammella. Oggi gli oncologi hanno a disposizione per la diagnosi tecniche innovative, “tra cui avanzati test genomici che consentono di personalizzare la terapia e di migliorare la qualità di vita delle pazienti”. Così Giampaolo Bianchini, responsabile del gruppo di patologia mammaria del Dipartimento di oncologia medica dell’Irccs ospedale San Raffaele di Milano, e Luca Licata, medico oncologo nello stesso team, su ‘Alleati per la Salute’, il portale dedicato all’informazione medico-scientifica realizzato da Novartis, che in un editoriale spiegano come funzionano e quali vantaggi comportano i test genomici.
I test genomici – sottolineano i due specialisti – sono degli strumenti diagnostici che permettono di caratterizzare la biologia del tumore della mammella in maniera più accurata di quanto si possa fare con le valutazioni anatomopatologiche convenzionali, consentendo di definire con maggiore precisione il rischio di recidiva (la prognosi) e l’eventuale necessità di alcuni trattamenti quali la chemioterapia. Tali procedure sono quindi in grado di fornire all’oncologo le informazioni necessarie per definire una proposta terapeutica personalizzata, sulla base delle caratteristiche individuali della malattia. Questi test non fanno un’analisi del Dna tumorale (genoma) – precisano Bianchini e Licata – bensì una valutazione del livello di espressione dell’mRna (trascrittoma) di alcuni geni specifici. Tale analisi viene normalmente eseguita sul campione di tessuto tumorale prelevato alla paziente durante l’intervento chirurgico, quindi senza alcuna necessità di eseguire ulteriori procedure invasive.
L’uso dei test genomici consente di identificare con precisione quali sono le donne che dopo la chirurgia possono essere trattate con la sola terapia ormonale e quelle che, invece, necessitano della chemioterapia. Non si usano in tutti i tipi di neoplasia della mammella – evidenziano gli oncologi – ma soltanto nei tumori che esprimono i recettori per l’estrogeno o il progesterone, e che sono negativi per una proteina chiamata Her2 (tumori Er+/Her2-). Questo sottogruppo rappresenta da solo circa il 65-70% di tutti i tumori al seno, che in Italia sono circa 55.000 ogni anno. Comunque, non tutte queste pazienti sono candidate ad eseguire un test genomico. Ad esempio, quando le caratteristiche clinico-patologiche standard (dimensioni del tumore, stato dei linfonodi, e caratteristiche biologiche valutate dal patologo) sono molto rassicuranti e consentano già di escludere l’utilità di una chemioterapia, oppure quando il tumore presenta fattori di rischio tali da non porre dubbi all’oncologo sull’utilità dell’aggiunta della chemioterapia stessa, i test non vengono richiesti. Tra questi due estremi, vi sono le pazienti per le quali i test genomici entrano in gioco, cioè quelle per le quali vi è incertezza relativamente al beneficio della chemioterapia, o quelle per le quali i fattori clinico-patologici standard raccomanderebbero una chemioterapia, ma l’impiego dei test genomici consentirebbe di evitarla in una larga proporzione di esse.
Complessivamente – concludono Bianchini e Licata – i test genomici sono degli strumenti moderni ed estremamente utili, che permettono di applicare alle donne con diagnosi di tumore al seno operate in fase precoce il concetto di medicina di precisione, cioè di dare il farmaco giusto, al paziente giusto, nel momento giusto. Tuttavia, i test genomici non possono sostituirsi all’esperienza del clinico che, nelle sue scelte, deve tener conto di tutti i fattori disponibili, incluse le caratteristiche della singola paziente e i suoi desideri.
L’articolo completo è disponibile su: https://www.alleatiperlasalute.it/diagnosi/diagnosi-di-tumore-al-seno-e-test-genomici.