(Adnkronos) – “Dubito che esista qualche medico che a cuor leggero prescriva una terapia come fosse un cappuccino, senza conoscere le problematiche alla base. La triptorelina è un analogo del GnRh, l’ormone di rilascio delle gonadotropine. I riflettori si erano già accesi qualche anno fa quando era stata approvata dal ministero della Salute l’estensione dell’utilizzo di questo farmaco, già utilizzato in persone con pubertà precoce per ritardarla, ai soggetti che presentassero disforia di genere. L’estensione era avvenuta con il parere favorevole di alcune società scientifiche tra cui la Società italiana di endocrinologia e diabetologia pediatrica si era estesa questa possibilità e con alcune limitazioni. Il messaggio che mi sento di lanciare è che i ragazzi che presentano queste situazioni hanno una sofferenza” sulle spalle. E la loro sofferenza va aiutata, capita, non condannata”. Sono le parole di Gianni Russo, referente di Endocrinologia pediatrica nell’Unità operativa di pediatria dell’ospedale San Raffaele di Milano.
E’ una sofferenza, osserva, “che va gestita nel miglior modo possibile. Esistono dei centri di riferimento ed è importante che, piuttosto che misconoscere un problema venga affrontato. Non sempre questo percorso porta a una necessità di terapie e di evoluzione in senso differente rispetto al sesso cromosomico ma se esistono queste situazioni è importante tenerne conto”. La riflessione dell’esperto arriva dopo che la Società psicoanalitica italiana ha scritto al ministro della Salute Orazio Schillaci esprimendo “grande preoccupazione” per l’uso di farmaci finalizzato a produrre un arresto dello sviluppo puberale in ragazzi di entrambi i sessi a cui è stata diagnosticata una disforia di genere.
Ma queste, puntualizza Russo, “sono terapie usate dai primi anni ’80, di cui si conoscono abbastanza bene gli effetti. La triptorelina serve a bloccare la produzione a livello centrale di gonadotropine e quindi lo stimolo a livello gonadico. Tra le indicazioni anche delle società scientifiche internazionali che si occupano” di disforie di genere “non c’è l’utilizzo in epoca prepuberale per queste forme. Ma viene consigliato il ricorso al farmaco in presenza di iniziali segni di comparsa di sviluppo puberale e questo perché effettivamente ci sono alcuni ragazzi che in epoca prepuberale manifestano l’intenzione di un adeguamento del proprio sesso a quello che è il loro sentore in senso di genere maschile piuttosto che femminile, i quali poi hanno un’evoluzione in senso differente”.
Per questo, chiarisce l’esperto, si preferisce aspettare i primi segni di sviluppo. Russo tiene a una premessa: “La disforia di genere ha come caratteristica non solo il desiderio di appartenere a un genere differente, ma si accompagna a un grosso disagio che interferisce in modo negativo con la vita sociale. Queste sono le caratteristiche. In altre parole, non sono persone che si svegliano al mattino e dicono: oggi voglio cambiare genere. Sono persone che non stanno bene. E, come succede anche nel resto del mondo, si avvia un percorso simile” con il congelamento dello sviluppo puberale, “nel momento in cui c’è un grosso disagio perché si crea un divario tra quella che è la propria percezione e i cambiamenti che il proprio corpo comincia ad avere e che differenziano in modo netto chi svilupperà in senso maschile e chi lo farà in senso femminile”.
L’obiettivo è “evitare che questi cambiamenti fisici si strutturino in modo così rilevante e che esacerbino il disagio che già la persona avverte e permettere a questa persona di avere un certo tempo per capire meglio la propria situazione e in quale direzione evolvere. Ma per avere un’idea di come funziona questo percorso, va detto che sono gli psicologi, gli psichiatri, gli psicoterapeuti, i neuropsichiatri infantili quelli che in prima battuta valutano queste situazioni. Anche perché vanno distinte bene da altre. Loro sanno cosa vivono e sentono. Dal punto di vista pratico, vediamo che c’è un ritiro dalla vita sociale: non vanno più a scuola o in giro”, e questa sofferenza “può poi accompagnarsi a pensieri autolesionisti o anche peggiori”.
Si inizia dunque un percorso. Ma, ribadisce Russo, “è importante capire che è una terapia assolutamente reversibile e se uno decidesse di sospenderla perché dopo sei mesi o un anno ha elaborato, insieme a chi lo sta seguendo, un processo differente la situazione di produzione ormonale ritorna quella di prima”. Percentualmente, continua, “sono significativamente di più le persone che proseguono un percorso di riattribuzione di genere in senso differente. Una percentuale molto minore interrompe questo processo. Ci sono sicuramente dei punti di domanda ma chi si occupa di questi soggetti con casistiche ampie, come in Olanda, li sta monitorando e sta vedendo che dal punto di vista del benessere psicofisico queste terapie di arresto della progressione dei caratteri sessuali, di supporto psicologico, di integrazione, e di supporto anche alla famiglia e di integrazione, portano a un’evoluzione che sembra essere positiva. In generale il 100% raramente si raggiunge, ma i dati dei lavori e quello che noi vediamo ci dicono che c’è un effetto positivo”.