(Adnkronos) – “L’integrazione dell’intelligenza artificiale (Ia) nella pratica clinica è ancora abbastanza lontana. Ci sono per ora applicazioni indirette. Per esempio l’ingegneria robotica-ortopedica nell’emofilia, oppure la gestione di alcuni elementi della ricerca genetica nelle malattie rare”. Lo ha detto Angelo Claudio Molinari, responsabile del Centro Emofilia presso l’Ospedale Gaslini e docente della Scuola di specializzazione di Ematologia di Genova, a margine del primo appuntamento della nuova serie di incontri ‘Sobi Talk’, dedicato al tema dell’Ia e alle sue possibili applicazioni nel campo della salute e delle malattie rare.
“Nella pratica clinica specifica delle malattie rare – spiega Molinari – l’integrazione dell’Ia è in fase di sviluppo. Tuttavia ci sono già degli esempi, provenienti prevalentemente dagli Stati Uniti, in cui l’Ia ha visto applicazione sia nel campo della ricerca per la terapia genica che della ricerca di farmaci specifici per alcune malattie metaboliche, per le quali è stato sviluppato un apposito software che si avvale dell’intelligenza artificiale per selezionare i farmaci più idonei per le patologie. Attualmente – precisa l’ematologo – uno dei timori che ricorre più di frequente è quello relativo al ‘deragliamento’ dell’Ia, ovvero la paura che questa possa non garantire gli standard di sicurezza, ad esempio nell’ambito della privacy”.
Resta comunque centrale il ruolo dell’uomo. “Applicata alla diagnostica – afferma l’esperto – alla terapia di qualunque malattia e alla terapia delle malattie rare in particolare, l’intelligenza artificiale avrà sempre bisogno del personale umano, che dovrebbe essere formato al fine di dare la corretta programmazione agli algoritmi di apprendimento”. Quest’ultimo è un approccio che per certi versi esiste già in alcuni contesti, come ad esempio quello delle terapie anticoagulanti. “Forse non tutti sanno – ricorda Molinari – che in Italia da molti anni, penso da più di 30, i pazienti che ricevono una terapia anticoagulante orale vengono gestiti da un computer, perlomeno per quanto riguarda la dose. Poi è compito dell’umano controllare che questa sia effettivamente appropriata. Pertanto – conclude – l’evoluzione della digitalizzazione della medicina non può che migliorare questo tipo di interazioni”.