(Adnkronos) – “Grazie a ravulizumab la cura della sindrome compie un ulteriore passo in avanti. La terapia non solo modifica radicalmente la storia naturale della malattia, ma migliora sensibilmente la qualità di vita dei malati e dei loro famigliari”. Così Gaetano La Manna, professore associato di Nefrologia all’Università di Bologna, oggi a Milano, nel corso di un evento con la stampa organizzato da Alexion, AstraZeneca Rare Disease, commenta il rimborso di ravulizumab per il trattamento della sindrome emolitico-uremica (Seu) atipica che danneggia le pareti dei vasi sanguigni di reni e altri organi. “Oggi – spiega lo specialista – l’obiettivo primario del trattamento della sindrome consiste nello ‘spegnimento’ del sistema del complemento e, in particolare, della proteina C5. Per farlo, sino ad oggi si procedeva alla somministrazione di eculizumab, un anticorpo monoclonale umanizzato inibitore del complemento in grado di bloccare C5”, somministrato ogni 2 settimane. Ora l’intervallo tra una somministrazione e l’altra si allunga a 8.
La Seu atipica “è una malattia cornica con riacutizzazioni che colpisce 0,5 persone per milione di abitanti – illustra La Manna – Prima di queste terapie, portava in dialisi il 50% dei casi nella prima manifestazione clinica, e il 75% negli anni raggiungeva l’insufficienza renale terminale. Si manifesta improvvisamente in seguito a un evento scatenante (trigger) – infezione, intervento chirurgico, forme di infiammazione sistemica, parto, altre patologie come l’ipertensione – con un quadro clinico sfumato, con una caduta delle piastrine e un innalzamento di altre molecole tipiche dell’infiammazione acuta, che rendono difficile la diagnosi. In questo contesto si ha una improvvisa insufficienza renale a cui seguono alterazioni in altri organi con complicanze anche neurologiche e cardiache perché il sistema, fuori controllo, colpisce i piccoli vasi, determinando trombi e danni”.
“Ravulizumab cambia il percorso di vita del paziente – sottolinea il nefrologo – Prima di questo farmaco, il paziente doveva avere plasmaferesi o plasma, solo nella fase acuta. Non vi erano terapie, ma si cercava, attraverso il plasma, di fornire delle sostanze e che servono per proteggersi dal danno infiammatorio e che il paziente a causa della malattia non produce. I risultati erano però molto scarsi”. Si entrava in dialisi ed erano necessari anche più trapianti di rene. “Con questo farmaco si supera questa condizione e si propone una terapia che è in grado, indipendentemente dall’elemento trigger – precisa l’esperto – di bloccare la cascata di eventi che causano i danni nel paziente”.
Il nuovo anticorpo monoclonale “è una terapia di precisione – continua La Manna – Va a identificare una molecola con un ruolo chiave nello sviluppo del processo infiammatorio, la componente C5 della via di degradazione del complemento, un incrocio di tutte le vie di attivazione, molto complesse, di questo processo infiammatorio. Bloccare questo punto significa fare medicina di precisione, impedendo che l’evento trigger, che attiva il sistema, produca il danno. La C5 è infatti la molecola che è prima dell’attivazione del danno, che si concretizza in un attacco del sistema verso il paziente stesso”.
Questo nuovo approccio terapeutico ha un importante l’impatto per il paziente e il sistema sanitario. Evitare la condizione morbosa della dialisi 3 volte alla settimana e dei trapianti – è stato riferito durante l’incontro – ha un’importanza rilevante sulla qualità della vita, soprattutto e si considera che ora la somministrazione della terapia passa appunto da 2 a 8 settimane. Rispetto al Servizio sanitario nazionale, “basta fare il raffronto rispetto ai tempi per l’ingresso alla dialisi che – ricorda il nefrologo – ha costi di 45mila euro/anno a paziente, che vengono allungati notevolmente, se non eliminati. Ci sono studi che hanno raffrontato ravulizumab con riscontri positivi del 100% sulla qualità di vita dei pazienti, che in una più grande popolazione non hanno bisogno di fare dialisi o trapianto e, in caso di trapiantato, mantengono l’organo”.
A fronte di terapie efficaci e a lunga durata, “c’è un difetto di diagnosi della patologia per un inizio confondibile con altri quadri patologici – rimarca La Manna – La diagnosi è casuale. Ci sono degli algoritmi sperimentati negli ospedali, ma spesso non vengono considerati per la bassa possibilità di individuare gli aspetti chiave di questa malattia. Si associa all’insufficienza renale, per vie non ben codificate, e si arriva al nefrologo, che è lo specialista di elezione. La patologia – conclude La Manna – è molto complessa. Richiede anche una formazione del medico, che non sempre ha presente la sua esistenza”.