(Adnkronos) – Da una scoperta nata per caso, la promessa di una ‘terapia wi-fi’ – da attivare a distanza – contro il dolore neuropatico. “Serendipity”, è la parola che usa Anna Moroni, responsabile del Laboratorio di biofisica dei canali ionici nel dipartimento di Bioscienze dell’università Statale di Milano, per raccontare all’Adnkronos Salute com’è nata l’intuizione di studiare una proteina sintetica, controllabile in remoto con un raggio di luce blu, e in grado di inibire – come è stato dimostrato nei ratti – l’attività di un gruppo di cellule neuronali coinvolte nei processi di un particolare tipo di dolore cronico, alleviandolo per oltre mezz’ora (con un solo minuto di esposizione alla fonte di luce). Lo studio pubblicato nel 2018 su ‘Nature Methods’ ha ricevuto quest’anno il Premio Aspen Institute Italia per la collaborazione e la ricerca scientifica tra Italia e Stati Uniti.
Il lavoro era stato infatti condotto dal laboratorio di Moroni, una sorta di ‘fabbrica’ di proteine utilizzabili in optogenetica, con il laboratorio di Neuromodulation of Cortical and Subcortical Circuits guidato da Raffaella Tonini dell’Istituto italiano di tecnologia (Iit) di Genova, in collaborazione con Columbia University a New York e University of Arizona a Tucson, e altre realtà scientifiche. Come si è arrivati alla ricerca sul dolore? “Stavamo lavorando a uno strumento per i neuroscienziati, una proteina per attivare o disattivare le cellule all’interno di circuiti neuronali e permettere agli esperti di studiare e capire il contributo di ciascuna singolarmente. La caratteristica che queste proteine devono avere è la velocità, proprio come un interruttore”, spiega Moroni.
“Quando ho visto che la proteina che avevamo creato era veloce nell’attivarsi ma piuttosto lenta nel disattivarsi, e l’inibizione che innescava rimaneva a lungo, anche 30 minuti dopo aver spento la luce blu, ho pensato che questa inibizione duratura potesse andare bene per il dolore”, prosegue. Galeotto fu dunque il ‘difetto’ di fabbrica, che ha dato vita a un filone di ricerca innovativo. Quella ricerca è andata avanti e oggi dalla prima proteina testata che si chiama Blink2 si è passati a Tick, un’altra proteina ingegnerizzata sempre dal team di Moroni nell’ambito del progetto Erc (European Research Council) ‘noMAGIC’, che si attiva in risposta a variazioni fisiologiche di temperatura.
DA BLINK2 A TICK
“Ci siamo resi conto che per andare in fase clinica ai test sull’uomo sarebbe stato meglio avere un’altra modalità di attivazione, perché la luce penetra poco attraverso i tessuti, viene riflessa o assorbita, quindi non va tanto in profondità. Per entrare all’interno del cervello si dovrebbero impiantare delle fibre ottiche”, osserva Moroni. Da qui l’idea della temperatura. “Un aumento di temperatura può essere generato con una lampada a infrarossi, o per esempio con gli ultrasuoni, che usiamo anche per fare le ecografie. Questi penetrano molto bene in profondità, sono considerati sicuri dai clinici e hanno come effetto anche quello di aumentare la temperatura dei tessuti. E bastano un paio di gradi. Questa proteina è chiusa quando la temperatura è fino a 37 gradi, se si sale a 39-40° C si apre”. E permetterebbe di spegnere o accendere i neuroni che conducono il segnale del dolore al cervello.
La proteina è stata brevettata e gli scienziati sono ora alla ricerca dei finanziamenti necessari per continuare la ricerca. Di grant in grant, l’idea è di arrivare un giorno a validare una strategia che prevede l’uso della terapia genica per andare a portare la proteina a destinazione nelle cellule ‘target’ che si vogliono controllare, e l’uso da parte dei pazienti di generatori di ultrasuoni portatili per attivare l’inibizione ‘on demand’, quando c’è necessità di alleviare il dolore. Il fatto che serva la terapia genica, per veicolare con un vettore virale la proteina a destinazione, rende più complesso il percorso verso la clinica. “Ci sono molti vincoli, e controlli da assolvere, il vettore virale deve essere molto specifico e portare a destinazione la proteina con precisione dove serve, va dimostrata la sicurezza e così via”, spiega Moroni.
Le cellule target a cui si mira “sono i neuroni sensoriali del sistema nervoso periferico, i nocicettori, deputati a percepire un grande sbalzo di temperatura, quindi quando una persona si scotta, o grandi stress meccanici, come una martellata per esempio, ma normalmente dovrebbero restare silenti – illustra Moroni – Invece, in molte patologie che danno infiammazione cronica, i nocicettori vengono alterati e si modificano. Ed è come se fossero sempre attivati, come se ci fosse sempre uno stimolo. Questo porta al dolore cronico”.
Un problema molto sentito, perché affligge le persone per anni, ed è difficile da controllare. “Alcuni pazienti sono resistenti persino agli oppioidi. Servono dunque delle soluzioni alternative”, evidenzia l’esperta. Una via potrebbe essere proprio quella su cui lavora il gruppo di Moroni. “Ora siamo nella fase preclinica, vogliamo iniziare i test e servono risorse”, aggiorna la ricercatrice. I fondi per “un primo test che permetta di iniziare a raccogliere i dati necessari” ci sono. “L’università Statale mi ha premiato con un grant da 50mila euro”, spiega Moroni. E poi “andremo avanti. Stiamo già facendo domande per contributi europei”.