(Adnkronos) – Grazie “ai 250mila trattamenti già fatti in Italia in questo momento stiamo ripagando non solo le terapie ma anche gli screening futuri. Abbiamo registrato una riduzione delle cirrosi, dei casi di epatocarcinoma, dei trapianti di fegato e dei decessi. Questo in termini di costo-efficacia è altamente valido, quindi dobbiamo procedere in tale direzione. Abbiamo chiesto al ministero della Salute una proroga per lo screening fino al 2025 e di allargare di allargare la fascia di età sulla popolazione, ovvero di fare screening anche ai soggetti nati tra il 1948 e il 1968. Tutto questo se andrà in porto faciliterà ulteriormente il raggiungimento dell’obiettivo che l’Oms ci chiede, ovvero l’eliminazione del virus dell’epatite C entro il 2030”. Lo ha detto Massimo Andreoni direttore scientifico della Società italiana di malattie infettive e tropicali (Simit) a margine della conferenza internazionale ‘Nuovi orizzonti nell’Hcv – completare il percorso di eliminazione’ che ha visto a Milano esperti a confronto anche sullo stato dell’arte dei trattamenti e sui bisogni non soddisfatti nella gestione dell’Hcv in popolazioni specifiche per fornire alcuni spunti utili per l’identificazione e il trattamento dei pazienti con epatite C nella pratica clinica quotidiana.
Essendo un’infezione asintomatica, è “più difficile ‘scovare’ il sommerso, ovvero tutti quei pazienti che hanno contratto il virus da Hcv ma lo ignorano – aggiunge Ivan Gentile professore ordinario di Malattie infettive Università degli Studi di Napoli Federico II – La positività viene scoperta per caso, ad esempio dopo che la persona ha svolto esami per prepararsi ad un intervento chirurgico”. A fare la differenza però è la disponibilità di farmaci “eccezionalmente attivi e ben tollerati – continua – Con un ciclo di trattamenti di 8-12 settimane riusciamo ad eradicare l’infezione praticamente nel 98% dei pazienti tuttavia. Il vero problema quindi è trovare i casi positivi. Per farlo dobbiamo concentrarci sui gruppi a rischio, tossicodipendenti e over65”.
Se l’Hcv non viene eliminato, “ci può essere una progressione del danno epatico verso la cirrosi – spiega Vincenza Calvaruso, Associazione italiana per lo studio del fegato (Aisf) – con un quadro clinico che non può tornare indietro, a un fegato funzionante, ma che va verso la malattia, l’epatocarcinoma. Ci sono poi altre patologie extraepatiche correlate all’infezione da Hcv: linfomi, alcuni deficit cognitivi e malattie neurologiche e cardiovascolari. Il paziente trattato – ribadisce Calvaruso – può interrompere la progressione di malattia. Un trattamento antivirale effettuato in una fase di malattia lieve fa sì che il paziente non vada incontro alla cirrosi, quindi permette il massimo del beneficio clinico perchè, di fatto il fegato resta normale anche nel corso degli anni. Quando invece interveniamo in fase più avanzata – rileva l’esperta – otteniamo un benefit, ma minore” perché “riduciamo il rischio di complicanze. Il paziente con cirrosi, però, deve essere trattato comunque perché – ricorda – il trattamento riduce il rischio di evento di scompenso e l’epatocarcinoma. Ci sono dei dati che dimostrano”, anche in questi pazienti “un minimo di beneficio. Questo è il momento in cui non ci sono più pazienti che non vanno trattati”.
L’eliminazione dell’Hcv è un processo che “include più passaggi importanti- sottolinea Alessio Aghemo, professore di Gastroenterologia Humanitas University di Milano – per prima cosa l’identificazione dell’80-90% delle persone con epatite C e il trattamento dell’80% dei casi individuati”. Grazie a questi step “il 99% dei pazienti riesce a guarire, di conseguenza diminuiscono i nuovi casi” poiché cala la trasmissione del virus “diminuiscono i decessi perché i pazienti una volta guariti non generano più complicanze, non muoiono più di malattie del fegato. Sulla carta è molto semplice in realtà raggiungere questi obiettivi è molto complesso. Alcune Regioni, “come la Lombardia – illustra Aghemo – hanno screenato molte persone negli ospedali (ricoverati o che accedono al centro prelievi). Si tratta di una strategia semplice ma, se ci concentriamo su una fascia di età, ovvero nella popolazione nata tra il 1969 e il 1989, come prevede l’attuale decreto ministeriale, sappiamo bene che sono poche le persone di questa età che accedono all’ospedale. Dunque, il rischio è quello di non riuscire a raggiungere queste persone. Altre Regioni, come la Basilicata – prosegue – hanno coinvolto i medici di medicina generale, ma non tutti hanno aderito all’iniziativa, e quindi anche questo è un piano molto difficile da applicare. La strategia giusta, invece, richiede più passaggi: una campagna per sensibilizzare l’opinione pubblica, associare il test per l’epatite C ad altre malattie in modo che la persona faccia più esami in una sola volta – conclude – e coinvolgere la medicina del territorio”.