(Adnkronos) – “Gli inibitori della tirosin-chinasi di Bruton sono piccole molecole che si assumono per bocca e che sono in grado di modulare il segnale cosiddetto Btk, associato alle cellule B e facente parte del complesso scenario immunologico che causa i danni della sclerosi multipla. Sono una classe di farmaci che, per i dati che abbiamo disposizione oggi, sembrano agire sia sulla componente infiammatoria periferica della malattia, quella ‘classica’ che conosciamo da tempo e che provoca le ricadute e le nuove lesioni attive a risonanza magnetica, sia sulla parte di cellule immunitarie all’interno del sistema nervoso centrale, tra cui la microglia, che si ritiene siano costantemente attivate fin dal primo giorno della malattia e che possono essere la causa di quel progressivo lento e insidioso danno al sistema nervoso centrale”. Così Massimo Filippi, direttore dell’unità di Neurologia, del servizio di Neurofisiologia e dell’unità di Neuroriabilitazione dell’Irccs San Raffaele di Milano, a margine della prima delle tre giornate del 9° Congresso Ecreims- Actrims, organizzato dal Comitato europeo per il trattamento e la ricerca sulla sclerosi multipla (Ectrims) con la collaborazione dell’omonimo comitato americano (Actrims) e il supporto dell’Associazione italiana sclerosi multipla (Aisla).
“Questo danno, superata una certa soglia, si traduce in progressione di malattia. Questa progressione al momento segna una sorta di punto di non ritorno nella storia della malattia – spiega Filippi – quindi il tentativo è quello di evitare che la progressione si instauri. Queste molecole sembrano essere molto promettenti in questo senso, proprio perché agiscono sia a livello periferico che di sistema nervoso centrale, modulando e riducendo le risposte immunitarie sfavorevoli”.
In occasione del congresso, Merck ha presentato i nuovi incoraggianti dati relativi a evobrutinib. Questo inibitore della Btk (tirosin-chinasi di Bruton), in grado di penetrare nel sistema nervoso centrale, ha mostrato un beneficio clinico prolungato fino a cinque anni nei pazienti con sclerosi multipla recidivante. “I dati che per ora abbiamo a disposizione – ha concluso Filippi – indicano una capacità di questa classe di molecole di ridurre le cosiddette lesioni cronico-attive che si ritengono essere la base biologica di questa smouldering inflammation, ma anche l’atrofia, ovvero il danno definitivo per il tessuto cerebrale”.