(Adnkronos) – Anche il codice postale (Cap) fa la differenza sulle cure. Il 40% delle persone con un tumore al seno o al polmone si sposta dal proprio comune di residenza per curarsi e il 20% di quelle che non rispondono alle terapie approvate e rimborsate, pur avendo i requisiti, non sono inviate a partecipare un trial clinico, con farmaci sperimentali, ma alle cure palliative, a causa della distanza dai centri e dalla mancanza di trasporti agevoli. Sono alcuni risultati della survey condotta da Elma Research su un campione di oltre 400 soggetti, tra pazienti e oncologi, nell’ambito del progetto di Elma Academy ‘Il tuo codice postale conta’, che ha l’obiettivo di approfondire e quantificare la disparità di accesso alle cure oncologiche in relazione al luogo di residenza in termini di accessibilità, su indicazione dell’ oncologo, ai trattamenti sperimentali.
“L’Italia – afferma la senatrice Daniela Sbrollini, vicepresidente della X Commissione Affari sociali, sanità, lavoro e previdenza sociale del Senato – sebbene presenti un quadro più omogeneo rispetto ad altri Paesi europei grazie alla presenza di un Servizio sanitario nazionale di tipo universalistico, non è immune al problema delle disuguaglianze, e trovare soluzioni affinché ci sia equità di accesso per ogni malato deve essere prioritario”.
In Italia, nel 2022 – spiega una nota – il tumore più diagnosticato (55.700 casi) è stato il carcinoma della mammella, mentre quello al polmone, con 43.900 nuove diagnosi, è stata la seconda neoplasia più frequente negli uomini (15%) e la terza nelle donne (12%). Per mortalità il tumore del polmone è al primo posto (18% di tutti i decessi per cancro) e quello al seno occupa il quinto posto (6,9%). Anche se queste due neoplasie sono responsabili del decesso di una persona con cancro su 4, l’accesso agli studi clinici – calcolato utilizzando come variabili l’incidenza della patologia, la distanza dai centri e il numero di studi sperimentali nel centro – è molto difforme. Se a Nord-est, nel Centro e nelle Isole, per esempio, ci sono delle ampie aree con bassa o media accessibilità, a Nord-ovest, la situazione è capovolta, con grandi zone ad alta accessibilità. Questo si traduce in una disparità di possibili opzioni terapeutiche a seconda del luogo di residenza dei malati.
La survey, che ha coinvolto più di 200 oncologi dedicati alla gestione e al trattamento di pazienti con neoplasie polmonari e mammarie e oltre 200 pazienti, ugualmente distribuiti nelle due diagnosi, ha evidenziato infatti come il Cap, inteso come luogo di residenza, è a tutti gli effetti un criterio di scelta per l’oncologo sull’includere o meno un paziente in uno studio clinico. A parità di quadro clinico, il non arruolamento è al 16% nelle zone ad alta accessibilità, al 23% in quelle a bassa. Il 65% dei medici intervistati ha riferito che il costo e i fattori organizzativi sono motivazione di non invio, mentre per il 36% è la distanza in termini di km e di tempo dal centro a scoraggiare la scelta.
“Per alcuni pazienti – spiega Luca Mazzarella, Group Leader, Laboratory of Translational Oncology, Department of Experimental Oncology, Istituto europeo di oncologia (Ieo) Milano – gli studi clinici rappresentano l’unica opzione terapeutica e di possibilità di un miglioramento delle condizioni di salute e della qualità di vita. Ma di fronte a un quadro diagnostico idoneo per un determinato trial clinico – aggiunge – l’oncologo deve considerare anche una serie di elementi per un eventuale arruolamento, come l’onere di raggiungere il centro, il supporto di un caregiver per coloro che sono più fragili, la gestione della famiglia e altri aspetti della vita della persona che possano essere determinanti per poter sostenere e non interrompere la sperimentazione, mantenendo al tempo stesso una buona qualità di vita”.
Del resto, per 3 pazienti su 10 i costi legati ai trasferimenti e la mancanza di servizi di trasporto pubblico sono i fattori più difficili da affrontare, insieme alla distanza dagli affetti (24%) e agli impegni familiari e professionali (17%). Tuttavia, spostarsi a volte non è una scelta, soprattutto per chi vive in aree a bassa accessibilità. Il 57% lo fa per raggiungere centri in grado di fornire le cure migliori e il 30% per mancanza di centri in grado di fornire cure ed esami di cui ha bisogno.
“Per migliorare l’accessibilità agli studi – riflette Gabriele Grea, Academic Fellow Department of Social and Political Sciences presso Università Bocconi di Milano, presidente di Redmint impresa sociale – dobbiamo concentrarci sui concetti di ‘impatto dello spostamento’ e ‘disponibilità di trasporto agevole’, lavorando sulla qualità dei servizi e la loro rispondenza rispetto ai bisogni degli utenti che, in quanto fragili, hanno necessità specifiche. Da un lato potrebbe essere utile – continua – valutare la possibilità di attivare servizi flessibili e ‘on demand’ guardando all’esperienza nell’ambito dei cosiddetti servizi Nemt, ovvero di trasporto sanitario programmato non urgente e, dall’altro, riflettere su possibili ottimizzazioni della distribuzione di trial sul territorio e, dove possibile, allinearli alla localizzazione della domanda”.
Questa indagine “indipendente e autofinanziata – sottolinea Massimo Massagrande, Ceo Elma – raccoglie il punto di vista degli specialisti e dei loro pazienti per arricchire la conoscenza del tema e cercare delle soluzioni per garantire un più equo accesso alle possibili opzioni terapeutiche per tutti. In Elma Academy – conclude- portiamo avanti diversi progetti in ambito sociosanitario per sensibilizzare tutti gli attori coinvolti, a partire dalle Istituzioni fino all’opinione pubblica su temi così delicati”.