(Adnkronos) – Uno studio italiano indica possibili biomarcatori utili a predire la risposta dei malati di cancro alle terapie Car-T, e suggerisce trattamenti immunologici in grado di prolungare la sopravvivenza in circa un terzo dei pazienti che reagiscono solo parzialmente alla cura. Il lavoro, pubblicato sul ‘British Journal of Haematology’, è stato condotto da Paolo Corradini, direttore della Struttura complessa di Ematologia dell’Istituto nazionale tumori (Int) di Milano, insieme agli esperti di statistica e anatomia patologica dell’Int, in collaborazione con il gruppo di Carmelo Carlo Stella dell’Istituto clinico Humanitas di Rozzano, Milano.
Le terapie Car-T, basate su linfociti T prelevati dai pazienti e ingegnerizzati in laboratorio in modo da riconoscere e uccidere le cellule del cancro, rappresentano una delle maggiori novità degli ultimi anni – ricordano dall’Int – per il trattamento dei tumori del sangue. Sono state usate con successo contro alcune neoplasie ematologiche come i linfomi non Hodgking e le leucemie linfoblastiche, nei malati che non hanno risposto o hanno risposto in modo incompleto ai trattamenti convenzionali. Esiste però una quota consistente di pazienti che non risponde neppure alle terapie Car-T, o risponde solo parzialmente. Quanto le Car-T vengono utilizzate in “pazienti con linfomi che hanno una ricaduta di malattia dopo i trattamenti convenzionali e non hanno più alternative terapeutiche – precisa Corradini – il 40-45 % dei soggetti sottoposti a questa terapia sopravvive a lungo termine, cioè è vivo e in remissione a un anno ed è guarito, perché le ricadute tardive oltre l’anno sono eventi molto rari. Rimane però il problema del 55-60% che non risponde alle Car-T, oppure risponde solo parzialmente e ha una nuova ricaduta a breve termine”.
Dall’analisi su 51 pazienti, un campione “discretamente numeroso”, sottolinea Corradini, “sono emersi alcuni dati fondamentali: il primo è che un livello di Dna libero circolante tumorale al di sopra di una certa soglia, individuata nello studio, è predittivo di una scarsa risposta alla terapia con le Car-T. Questo è particolarmente importante – evidenzia lo specialista – perché attualmente sono disponibili farmaci, come gli anticorpi inibitori dei checkpoint immunitari o gli anticorpi bispecifici, come il glofitamab, che potrebbero modulare la risposta in alcuni pazienti, se individuati per tempo”. Un risultato definito dagli autori “molto incoraggiante, che però dipende in modo cruciale dal tipo di mancata risposta terapeutica”.
Chiarisce Corradini: “Se il paziente non ha mai risposto alle Car-T e va quindi incontro a una franca progressione, purtroppo non ci sono opzioni terapeutiche efficaci. Diverso è invece il caso di un paziente che ha avuto una risposta parziale alle Car-T e in cui magari la malattia va in progressione dopo qualche mese: in questo caso, la malattia viene controllata meglio, ottenendo una migliore risposta e una maggiore sopravvivenza, se in concomitanza viene fatto qualche trattamento immunologico, o anche una chemioterapia o una radioterapia. Questo è il secondo risultato importante che abbiamo ottenuto, che conferma quanto già emerso da altri studi”.
“Rilevante ai fini degli esiti clinici è anche il tempo che trascorre dal trattamento Car-T alla progressione di malattia”, emerge dalla ricerca. “Facciamo l’esempio – spiega l’oncoematologo dell’Int – di un paziente che risponde alle Car-T per 4 mesi per poi andare incontro nuovamente a una progressione di malattia: se si interviene successivamente con un anticorpo bispecifico, la sua probabilità di rispondere al trattamento è decisamente più alta rispetto a un soggetto che purtroppo va già in progressione dopo 30 giorni e che quindi mostra una risposta brevissima o addirittura non mostra alcuna risposta. Ciò induce a considerare la prima come una malattia parzialmente immuno-sensibile e la seconda una malattia del tutto immuno-resistente”.
“In conclusione”, per Corradini “possiamo lanciare un messaggio positivo: in questo ultimo lavoro, mostriamo che i pazienti che hanno avuto una ricaduta dopo la terapia con Car-T hanno comunque una possibilità del 30% di sopravvivenza a 2 anni. Può sembrare un numero limitato, ma occorre considerare che si tratta di pazienti che in precedenza avrebbero avuto un tracollo rapidissimo della situazione clinica. L’obiettivo della nostra ricerca – conclude il coordinatore – è ora di riuscire a individuare in anticipo la quota di pazienti che con maggiore probabilità risponderanno alla terapia con le Car-T e la quota che invece sarebbe meglio inviare direttamente alla terapia con anticorpi bispecifici, in un’ottica di sempre maggiore personalizzazione delle cure oncologiche”.