Esiste parola più vaga di “innovazione”? Ambiente, tecnologia, cultura: tutto può essere contenuto da questo termine. E i risultati si vedono nell’uso – e abuso – che se ne fa nel settore della comunicazione e del marketing.
La cuccagna dell’innovazione
Vuoi migliorare la posizione del tuo marchio agli occhi del pubblico? Perché non provare l’innovazione, annunciando investimenti su pannelli solari, nuove tecnologie e deforestazione? Sono tutte cose positive, di per sé, ma il concetto rischia di diventare un totem, e di cadere vittima dell’effetto “green washing”. Di che si tratta? Di quella forma di marketing basata su una forma d’ambientalismo solo di facciata. Tante parole belle, pochi fatti.
Un esempio dalle cronache recentissime. Accenture, multinazionale del settore della consulenza aziendale, è stata da poco premiata come “leader” nella “cultura dell’innovazione”. Il prestigioso riconoscimento è venuto da Forrester, società di consulenza specializzata nella crescita delle aziende. Ora, possiamo capire che Accenture sia un’azienda innovatrice – non facciamo difficoltà a crederlo – ma si può sapere come viene valutata e misurata l’innovazione?
Alla ricerca di una definizione precisa (e impossibile)
Un fattore tanto aleatorio va per forza ridotto a poche variabili, come ha fatto Forrester con questo bizzarro grafico in cui aziende di vario tipo (Deloitte ma anche IBM) vengono disposte su due assi. Il primo misura la solidità dell’“offerta attuale”, il secondo la solidità della “strategia”.
Nel documento di Forrester, si cerca di definire la prima usando una sfilza di buzzword come “supporto alla strategia”, “cultura dell’innovazione”, “gestione del cambiamento organizzativo”. Insomma, facciamo che ci fidiamo. Non va meglio con la parte strategica, che include perle come la “visione di innovazione”, “le metodologie dell’innovazione” e ovviamente la “roadmap” per la suddetta. Insomma, se non l’avete ancora capito: innovazione, innovazione, innovazione. Proprio quel concetto-ombrello nel quale si può includere una diversità di fattori poco misurabili. Facile, no?
Il business dei premi per l’innovazione
Il punto non è che Accenture – o un’altra azienda, se è per quello – non meriti questo riconoscimento. Il cuore della questione è l’esistenza di questi tipi di “premio”. E la loro utilità. Perché è il momento di chiederselo: a che servono, precisamente?
La risposta è piuttosto schietta e chiara: a chi li vince, e a chi li dà. In questo caso, a una sfilza di società di consulenza dai fatturati miliardari che vengono analizzate – una di queste poi vincerà, Accenture. In secondo luogo, a una società di consulenza, che su questa lotteria dell’innovazione ha fatto il proprio business, dando premi annuali e offrendo consulenze strapagate.
Italia, terra di innovazione (e di premi)
Che la maggior parte dei premi riguardanti il business e l’innovazione siano parte di un’industria miliardaria è un segreto di pulcinella, ovviamente.
Non c’è rione, fondazione, città, provincia o ente che non abbia premi simili. E se alle volte le buone intenzioni non mancano, è difficile non vedere il gioco di potere che si nasconde dietro a queste cerimonie. Per un Paese così poco affine all’innovazione, l’Italia sembra premiarla moltissimo.
C’è il premio della SMAU, quello di ConfCommercio per l’Innovazione nei Servizi, quello di Confindustria ma anche il “Premio dei premi” dell’innovazione, nato nel 2008 su concessione del presidente della Repubblica in persona, presso la Fondazione Cotec. E poi ‘“L’impresa oltre l’impresa” della Regione Lombardia, dove troviamo anche il premio di Arpa Lombardia per “L’innovazione amica dell’ambiente”, oltre che il Premio Innovazione digitale in Sanità 2021 del Politecnico di Milano.
Basta cercare “premio innovazione Italia” su Google per aprire un calderone di sigle, aziende e personalità di vario tipo, tutte riunitesi sotto l’egida dell’Innovazione. E pronte a strette di mano e complimenti.
Il fenomeno dei “Vanity Award”
Se alcuni premi sono quantomeno sospetti, ce ne sono poi di totalmente truffaldini. Li chiamano “Vanity Awards”, e sono premi-fuffa che cercano di scucire soldi facendo la leva sulla vanità delle persone. “Complimenti, sei l’imprenditore dell’anno!”. Per ritirare il tuo meritatissimo premio, però, devi pagare.
Siamo ai limiti della spam, ovviamente, ma c’è chi paga magari sapendo, pur di poter sfoggiare una targa o una coppa. Facciamo un esempio americano per dimostrare che tutto il mondo è paese: il “The Best of Portland Award Program” è un premio di Portland, Oregon, che metteva in vendita premi aziendali. “La maggior parte delle organizzazioni di business fa pagare fee annuali ai propri membri e con quei soldi sponsorizzano il programma di premi”, si leggeva nel sito. Pur precisando di non chiedere soldi in cambio di premi, l’ente precisava: “ogni beneficiario deve pagare per il prezzo del suo premio”.
Eccola, la zona grigia che permette l’esistenza di questo tipo di premi. Non si paga direttamente per il premio ma si rimborsa l’ente che te lo dà. Ma non è la stessa cosa? “Assolutamente no!”, ovviamente.
Che dire, anche questa è innovazione.
(Foto: Envato)