Meta, la società madre di Facebook ed Instagram, potrebbe presto liberare i capezzoli. L’attuale divieto di mostrare i seni femminili nudi, una versione digitale della foglia di fico che nell’antichità si applicava alle parti intime delle statue, è stata giudicata “discriminatoria” dall’Oversight Board, il comitato di supervisione della società. “Impedisce il diritto di espressione delle donne e delle persone trans e non binarie”, ha sentenziato il gruppo di accademici, politici e giornalisti che consiglia l’azienda sulle sue politiche di moderazione dei contenuti, chiedendo una revisione delle regole che impediscono di pubblicare immagini di donne – ma non di uomini – a torso nudo. I principi della comunità sulla nudità e l’attività sessuale degli adulti “siano regolati da criteri chiari, che rispettino gli standard internazionali sui diritti umani”.
Capezzoli liberi su Instagram e Facebook: il caso
La sentenza arriva dopo la censura da parte di Facebook di due post pubblicati dall’account gestito da una coppia trans e non binaria, che raccoglieva fondi per un intervento chirurgico. I contenuti riportavano la foto del petto nudo di una persona, con i capezzoli coperti, accompagnata da informazioni sull’assistenza sanitaria per le persone transgender, le operazioni di chirurgia al seno e il link per fare donazioni. Post che non avrebbero nemmeno dovuto essere censurati, tra l’altro, dato che i capezzoli non si vedevano, ma che sono stati segnalati da alcuni utenti, per poi essere ripristinati dopo che la coppia ha fatto ricorso.
Capezzoli: Meta abolirà la censura?
Mark Zuckeberg ha ora 60 giorni di tempo per rispondere pubblicamente e decidere che cosa fare: quello espresso dal comitato dei saggi 2.0 è infatti un parere, e non un obbligo. “Accogliamo con favore la decisione del consiglio su questo caso e facciamo costantemente evolvere le nostre politiche per contribuire a rendere le nostre piattaforme più sicure per tutti”, ha fatto sapere un portavoce della società. “Sappiamo che si può fare di più per sostenere la comunità LGBTQ+, e questo significa lavorare con esperti ed organizzazioni su una serie di questioni e miglioramenti dei prodotti”.
Insomma, se il responso finale è ancora incerto, certo è, invece, che Meta combatte da oltre un decennio con la questione del capezzolo. Prima le proteste delle Lactivist, ovvero le mamme che allattano, organizzatrici di un “nurse-in” presso la sede di Facebook, poi la campagna avviata dal movimento Free the Nipple, che è diventata mainstream nel 2013, entrando a far parte del linguaggio pop-femminista e ricevendo il supporto di celebrities come Rihanna (foto in alto, da Instagram) e Miley Cyrus. Nel 2014 Scout Willis, la figlia di Bruce e di Demi Moore, si era fatta fotografare mentre girava in topless per New York, spiegando che quello che è legale per le strade della Grande Mela non è invece fattibile su Facebook o su Instagram, mentre nel 2015 l’artista di Los Angeles Micol Hebron ha anche creato adesivi di capezzoli maschili, in modo che le utenti femminili di Instagram potessero sovrapporli ai propri per prendere in giro la disparità di genere.
Capezzoli liberi: tutti gli errori dell’algoritmo
Comunque vada a finire, anche nel caso di un capezzolo più libero online, restano i dubbi su come i sistemi di moderazione automatica dei contenuti potranno eventualmente applicare una nuova filosofia di gestione. Come riuscirà l’Intelligenza Artificiale a distinguere una coppia che raccoglie fondi per permettersi un intervento di chirurgia da una persona che chiede sesso online? Tra l’eccesso di zelo da un lato e lo sdoganamento del porno dall’altro, c’è una bella differenza: l’algoritmo riuscirà a cavarsela? Di scivoloni, finora, ne ha fatti tanti, bannando mamme in allattamento e donne che raccontavano di aver subito una mastectomia. Non solo: oltre ad aumentare la sua presunta sensibilità nel valutare il contesto delle immagini di attualità, l’algoritmo dovrà anche diventare un esperto di storia e di arte.
Troppe volte, infatti, il software di Zuckerberg si è abbattuto contro le nudità di opere che appartengono al patrimonio culturale dell’umanità: dal quadro Amor vincit omnia di Caravaggio, in cui il giovane Amore indossa solo un paio d’ali di aquila, a L’origine del mondo di Gustave Courbet, in cui c’è una vagina in primo piano, da L’Angelo incarnato di Leonardo Da Vinci, che raffigura un adolescente ermafrodita, al celebre scatto del vietnamita Nick Ut con protagonista Kim Phúc, la bambina (oggi 53enne) che scappava dai bombardamenti al napalm. E ancora: il piccolo Cupido in marmo di Michelangelo Buonarroti, le opere dell’artista Pieter Paul Rubens (pubblicati tra l’altro dall’ufficio del turismo delle Fiandre), gli affreschi di Pompei, la Venere preistorica di Willendorf, le Donne alla toilette di Picasso e la Sirenetta di Copenaghen.
Chissà che cosa penserebbe oggi Daniele da Volterra, allievo prediletto di Michelangelo, a cui nel 1564 papa Pio IV chiese di coprire le nudità del Giudizio Universale, facendolo passare alla storia con il soprannome di Braghettone.