Tra le molte conseguenze a lungo termine della pandemia c’è il caos della produzione e distribuzione di molti prodotti. Tra i più difficili da trovare ci sono i chip, elementi necessari per un mondo in cui tutto è elettronico e computerizzato. I fattori di questo crunch sono molti e complessi, vanno dal settore automobilistico al boom del mining di criptovalute, ma nascondono anche tensioni geopolitiche.
Cina vs America. E l’Europa?
In questi mesi si è spesso parlato di come la Cina stia lavorando per assicurarsi il controllo e lo sfruttamento dei giacimenti di terre rare in tutto il mondo. Tra i continenti più ricchi di queste risorse c’è l’Africa, dove il governo cinese tesse da anni rapporti diplomatici con molti Paesi. Ma anche l’Afghanistan, dove Pechino sta già trattando per aggiudicarsi queste risorse, importanti quanto il petrolio nella nostra era digitale.
Come vedremo, questa corsa al chip vede Washington e Pechino come avversari ma anche come partner di un business ormai troppo grande. Una strana forma di co-dipendenza, che però rischia di finire presto. Lo scorso 24 febbraio il Presidente statunitense Joe Biden ha firmato un ordine esecutivo per valutare il grado di dipendenza degli USA in questo settore. E, di conseguenza, ottenere margini di controllo nella catena di approvvigionamento in questo settore.
Lo scorso maggio anche l’Unione europea ha annunciato un piano simile, con l’obiettivo di riportare la produzione di chip nel Continente. L’approccio europeo, secondo il Commissario europeo Thierry Breton, “è stato finora troppo ingenuo e aperto”. Insomma, la pacchia è finita: è guerra aperta.
Le mire della Cina sui semiconduttori
Ma le terre rare sono solo una parte di questa nuovo scontro per le risorse hi-tech. La Cina vuole anche controllare la supply chain dei semiconduttori, materiali (semimetalli) alla base della produzione dei dispositivi elettronici. Se le terre rare sono minerali da scavare e trattare, i semiconduttori necessitano di un’industria molto più sofisticata. In questo settore non ci sono miniere: tutto è microscopico e altamente computerizzato.
Il design di questi chip avviene in un mondo minuscolo. Alcuni dei “nodi” che li compongono sono della dimensione di un atomo. I più avanzati, anche più piccoli. È ovvio che tali lavorazioni siano complicate e costose, e anche per questo sono le realtà occidentali a essere in vantaggio, grazie a decenni di esperienza e know how. Tutte cose che non si possono recuperare in pochi anni, purtroppo per Pechino.
Da Intel all’odiata Taiwan: i semiconduttori preoccupano la Cina
I nomi di riferimento globale per questo business sono Samsung, Intel, seguiti da altre realtà perlopiù a stelle e strisce come Qualcomm, Nvidia e da altre, come la fonderia taiwanese TSMC. Corea del Sud, USA e Taiwan: non proprio le nazioni più amiche della Cina, insomma.
C’è di più: tecnologie come il 5G esigono chip con nodi sempre più piccoli, attorno ai 2 nm (nanometri), come quello recentemente prodotto da IBM. Ma sempre più settori ormai usano chip a 5 nm, nuovo standard globale, che vengono prodotti dai soliti noti. Secondo l’esperta del settore Lillian Li, autrice di un ottimo report sull’argomento, la Cina sarebbe in grado di produrre al massimo nodi da 7 nm.
La Cina non vuole rimanere indietro: che farà l’Occidente?
È su questo che Pechino vuole investire. Anzi, deve investire. Perché non basta mettere il cappello sull’approvvigionamento, se poi le lavorazioni più sofisticate e importanti sono appaltate a realtà occidentali (o asiatiche, ma fuori dal controllo cinese).
Insomma, quello delle terre rare è solo una parte della guerra dei chip. La più facile, forse. Poi viene il bello, e il difficile: progettare e produrre chip a 2 nm, in massa, bypassando così gli altri competitor e trasformando il vantaggio industriale in un’arma d’influenza geopolitica. Ebbene, su questo campo l’Occidente sembra avere un vantaggio sulla Cna: almeno per ora.
(Foto: IBM)