Il settore dell’abbigliamento è responsabile del 10% delle emissioni prodotte dall’uomo. La moda, in gran parte divorata dal fenomeno della smart fashion, ha cicli sempre più veloci e produce sempre più campionari. Risultato? Una montagna di tessuti (dal cotone a quelli sintetici) che devono essere prodotti, trattati, trasportati. Ad libitum.
Una responsabilità che alcuni brand d’alta moda stanno cominciando a prendersi, investendo in forme d’agricoltura sostenibili e “rigenerative”. Kering, il mega-gruppo che controlla Gucci (ma anche Balenciaga e Bottega Veneta, per dirne solo un paio) ha annunciato un piano realizzato con l’associazione Conservation International per trasformare un milione di ettari di campi con questo metodo. Sono circa 10mila chilometri quadrati di territorio.
Per Agricoltura Organica e Rigenerativa (AOR) si intende una serie di pratiche in grado di aumentare la fertilità dei suoli e aumentando il carbonio organico presente nel terreno. Una maggiore diversità microbiologica che non può verificarsi nei terreni in cui si praticano le monoculture, ad esempio, che impoveriscono la terra e la indeboliscono (necessitando di sempre più additivi).
Timberland ha presentato invece una nuova filiera per la gomma in Thailandia, mentre da anni Patagonia investe in progetti simili, anche incentivando il riutilizzo (e quindi la rivendita) dei loro stessi capi, per ridurre gli sprechi.
Sono decisioni importanti perché arrivano dai grandi nomi della moda. Ma è probabile che il vero cambiamento arriverà quando (e se) i brand della moda veloce proveranno strade simili. H&M, Zara, Ovs sono forse meno prestigiosi delle aziende citate finora ma operano a un livello completamente diverso, in un mercato globale di massa. Ed è lì che l’agricoltura sostenibile e l’abbandono della monocoltura devono arrivare, per avere dei risultati notevoli in fretta. Altrimenti c’è il rischio che anche questa battaglia ambientalista rimanga una casa elitaria, quasi un lusso da brand parigini o italiani.