Un nuovo scontro tra Cina e USA, ma questa volta non c’entra la nuova guerra fredda tra le due superpotenze. No, è solo una questione di Bitcoin (diretti in Texas).
La svolta di Pechino (e la fuga)
Tutto è cominciato lo scorso maggio quando il governo centrale cinese ha di fatto vietato il mining di criptovalute. Si tratta del processo con cui dei computer molto potenti devono risolvere sofisticati puzzle matematici per “coniare” nuove monete. In questo caso, Bitcoin. La scelta di Pechino rientra in un generale riallineamento del Paese nei confronti delle nuove tecnologie, politica che ha spinto molti giovani miner all’estero.
Questo ha cambiato tutto, perché fino a pochi mesi fa era proprio la Cina il Paese con più potenza di calcolo in questo settore. Una di queste aziende, Poolin, che opera in varie sedi, tra cui Berlino, è attualmente la seconda al mondo in termini di hashrate (valore con cui si indica il potere computazionale necessario per minare nuovi Bitcoin). E ha deciso di stabilirsi nel cuore del capitalismo: gli USA. In Texas, precisamente.
Bitcoin, perché proprio il Texas?
Così, molte persone di questo campo hanno dovuto lasciare la madrepatria alla ricerca di una nuova casa. I requisiti fondamentali? Innanzitutto il costo dell’elettricità, di cui hanno bisogno costante e massiccio, e quindi deve costare poco. In secondo luogo, la stabilità politica. I miner sono stufi di spostarsi – anche perché muovere le enormi rack di server non è facile, oltre che dispendioso.
Quale posto migliore del Texas, quindi, dove le enormi riserve di gas e petrolio e dei politici piuttosto dediti al laissez faire hanno creato l’ecosistema perfetto? Grazie a dei costi bassi e un governo amichevole nei confronti del settore, il Texas sta diventando la nuova terra promessa per il mondo crypto.
Le mosse della Cina
Ma perché la Cina ha deciso di “tagliare” sui Bitcoin? Molte le teorie: da un generale scetticismo nei confronti del sistema decentralizzato su cui si basano le criptovalute, al progetto tutto cinese di una criptovaluta nazionale. Come ha spiegato uno di questi miner al sito Rest of the World, “in questo momento la Cina colpisce tutto ciò che non controlla”. Pensate al caso Jack Ma o la recente crociata contro lo strapotere dei nuovi giganti digitali locali. Senza contare che il Bitcoin “funziona fondamentalmente su un paradigma diverso da quello del governo cinese”. Ergo, non è gradito.
Quel che è certo è che lo scorso ottobre la percentuale di Bitcoin minato in Cina era più del 60% del totale mondiale. Oggi siamo attorno al 50%, e il calo non sembra fermarsi. Insomma, le aree rurali del Texas continueranno a riempirsi di miner e aspiranti crypto miliardari, alla faccia di Pechino.
(Foto: Envato)