Che sia molecolare o antigenico rapido, sierologico o fai da te, salivare o naso-orofaringeo, il tampone è ormai diventato il secondo strumento chiave nella lotta contro Sars-CoV-2 dopo i vaccini. Se, infatti, il vaccino fornisce un’adeguata copertura alla popolazione in modo tale da ridurre il numero di pazienti colpiti dal Covid-19 in forme gravi, i classici tamponi sono in grado di fotografare lo stato di salute dei singoli individui. E così, per capire se siamo stati contagiati dopo essere entrati in contatto con un positivo, se la febbre che abbiamo da un paio di sere è sinonimo di una normale influenza, se il malessere generale che ci rende meno lucidi è solo frutto di tanta stanchezza accumulata, e via dicendo, per questo e molto altro bisogna sottoporsi a un test Covid.
Tamponi. Rapidi o molecolari, farmacia o ospedale: una questione di geopolitica
Ogni giorno i Paesi di tutto il mondo – o meglio: le farmacie, i laboratori e, più in generale, le strutture sanitarie – effettuano decine e decine di milioni di tamponi per scovare il nemico invisibile. Ma da dove arrivano quegli stessi tamponi che scarseggiavano a inizio pandemia, e che adesso possiamo trovare, nelle loro forme più semplici, persino nei corridoi dei supermercati? La maggior parte dei tamponi che sondano le nostre narici alla ricerca di Sars-CoV-2 provengono da Corea del Sud, Cina e Giappone – soprattutto i primi due – veri e propri assi pigliatutto del nuovo e fiorente “mercato tamponistico” globale.
Il rimanente viene invece prodotto da una manciata di multinazionali statunitensi o europee, molto attive nel grande business dei tamponi figlio dell’emergenza Covid. Per capirsi, nel corso dell’ultimo anno l’Italia ha acquistato quasi 200 milioni tra kit diagnostici e tamponi, investendo poco meno di 600 milioni di euro; cifre del genere vanno sommate ai numeri ottenuti dagli altri Paesi, e il peso dei tamponi è presto stabilito.
Dal momento che questi strumenti sembrano essere appannaggio di poche realtà, e per giunta straniere, ecco che entrano in campo variabili delicate da prendere in considerazione: le relazioni geopolitiche tra i Paesi esportatori di tamponi e i Paesi riceventi. In altre parole, è apparso evidente fin da subito che chi può contare su un network economico ben oliato all’interno dei principali Stati esportatori e produttori di tamponi (e non solo: il discorso può essere esteso a vaccini e altri dispositivi, come guanti, mascherine e camici) è in grado di sfruttarlo a proprio vantaggio. In caso contrario, non resta che armarsi di pazienza e mettersi in fila. E in una situazione critica questo può fare la differenza.
Tamponi, oggi la regina è la Corea del Sud
Abbiamo parlato di Corea del Sud. A Seul e dintorni spiccano diverse aziende impegnate nel commercio dei tamponi, anche verso l’Italia. Citiamo Seegene Inc, Rapigen ed Sd Biosensor. Mentre la prima ha esportato 5,1 milioni di kit in Israele nel periodo compreso tra il dicembre 2021 e il gennaio 2022, quest’ultima, ad esempio, ha iniziato a sviluppare i suoi test nel gennaio 2020, cioè subito dopo l’annuncio della comparsa del virus a Wuhan. Il governo sudcoreano ha rilasciato un’autorizzazione emergenziale per l’utilizzo dei kit nel giro di appena due settimane, accelerando un processo di sperimentazione clinica che, di solito, richiede un anno per poter essere completato. La velocità è stata un fattore chiave non solo nell’ampliamento a ventaglio del programma di tracciamento da parte della Corea del Sud, ma anche nella capacità del Paese di trasformarsi in uno dei più importanti esportatori di test Covid al mondo. Dando un’occhiata ai dati, nel dicembre 2021 la principale destinazione delle esportazioni di kit made in Korea era il Vietnam, con un valore di circa 52 milioni di dollari; l’Italia era al secondo posto con 29,95 milioni di dollari, seguita da Spagna (25,58 milioni) e Stati Uniti (21,02). Humasis, altra azienda sudcoreana, ha stretto un accordo con l’americana Celltrion per distribuire in Usa kit di autotest dell’antigene Covid-19. L’operazione, ha riportato la stampa internazionale, ha sfiorato i 43,5 milioni di dollari.
Covid test, in Cina avviata la produzione automatizzata
Ma, come detto, i tamponi usati in Italia non vengono solo dalla Corea del Sud. Nel mercato dei cosiddetti tamponi fai da te la Cina spadroneggia, forte dell’azienda Hangzhou Alltest Biotech, diffusa nel nostro Paese, di Assure Tech e Sansure Biotech. Sansure sta realizzando kit per il mercato mondiale, tra cui Francia, Italia e Stati Uniti; per espandere la produzione, la società ha iniziato a utilizzare l’automazione, così da migliorare l’attuale capacità produttiva massima di oltre 5 milioni di reagenti al giorno. Spiccano anche fornitori americani, come Abbott e Perkin Elmer, e tedeschi, vedi Grenier Bio.
Covid, una diplomazia della pandemia per essere pronti alle future minacce
Ora che le rotte dei tamponi sono più chiare, è possibile fare un paio di considerazioni. La prima: il flusso di denaro finisce quasi sempre dall’Italia alle casse di aziende asiatiche, le quali vendono spesso kit a prezzi irrisori (si parla di un tariffario che spazia dalle poche decine di centesimi a qualche euro) e non competitivi. La seconda: al di là del far west legato alla qualità dei prodotti, attivare i legami diplomatici fluidi con i grandi produttori di kit – che poi sono gli stessi che sfornano anche i dispositivi di protezione individuale – consente – anche in vista delle eventuali, prossime, emergenze sanitarie – di partire avvantaggiati di fronte a nuove minacce. Studiare la mappa dei tamponi non è, tutto sommato, un esercizio fine a se stesso.