Individuare i casi da trattare per disporre poi di budget adeguati e poter disporre di trattamenti per tutti e distribuiti uniformemente sul territorio. E poi condivisione con i pazienti, le associazioni e i care-giver per individuare le terapie più efficaci ma anche che salvaguardino il più possibile la qualità di vita dell’assistito.
È quanto emerge dallo studio “Analisi dell’epidemiologia e della farmaco-utilizzazione dei pazienti affetti da trombocitopenia immune primaria in contesti italiani”, condotto da CliCon S.r.l., e presentato nel corso dell’evento “Trombocitopenia Immune Primaria: cambiare l’approccio per cambiare la vita”, promosso da Inrete con il contributo non condizionante di Novartis. La tavola rotonda ha offerto anche l’occasione di illustrare i risultati dello studio internazionale “iWISh” che fotografa l’epidemiologia di questa rara forma di malattia autoimmune della coagulazione, caratterizzata da carenza di piastrine o dalla riduzione del loro valore, ma anche l’impatto negativo sulla qualità di vita dei pazienti legato alla terapia prolungata con corticosteroidi.
“Sulla base dell’analisi condotta nel contesto italiano, – spiega Luca Degli Esposti, Presidente CliCon Health, Economics and Outcomes Research – la prevalenza della trombocitopenia immune primaria è risultata pari a 262 casi/milione di assistibili. Tale esperienza ha confermato la possibilità di affinare le stime su epidemiologia e modalità del trattamento dei pazienti affetti da malattie rare mediante i dati sanitari disponibili e, conseguentemente, di poter disporre di un ulteriore elemento conoscitivo per la gestione della patologia e la valutazione delle terapie farmacologiche. L’epidemiologia è uno dei primi obiettivi per la gestione delle malattie rare. Sapere quanti casi devono essere trattati è fondamentale per commisurare i budget e quindi per disporre di risorse adeguate per il numero di pazienti che verranno trattati, per un dimensionamento della capacità di erogazione delle prestazioni sanitarie, così come è importante cercare di distribuire i centri sul territorio in modo che siano facilmente accessibili”.
L’inerzia terapeutica potrebbe essere una causa dell’eccessivo ricorso ai corticosteroidi.
Secondo l’indagine “iWISh” Circa i due terzi dei pazienti sono risultati in trattamento con farmaci corticosteroidi e, tra questi, la maggior parte presentava un’esposizione superiore ai tre mesi di terapia.
L’analisi osservazionale si basa su un campione nazionale di circa 9 milioni di pazienti, di cui 2.869 affetti da ITP. Di questi ultimi, il 65,6% – in trattamento con corticosteroidi – ha un’età media pari a 49,9 anni. I pazienti trattati con corticosteroidi con durata di almeno un ciclo superiore a 3 mesi sono il 46,1%, mentre circa il 67,7% dei cicli osservati ha mostrato un’esposizione molto superiore a questa soglia. Come evidenziato dallo studio, infatti, la durata media dei cicli di terapia con corticosteroide è pari a 6,8 mesi nei pazienti trattati. La quota di cicli di trattamento con corticosteroidi oltre l’anno, infine, raggiunge il 25,5%.
“C’è una tendenza a usare il cortisone per un periodo più lungo del previsto. È un problema di trasferimento delle evidenze scientifiche: nonostante le regole di trattamento siano chiare, nella pratica clinica, per una serie di motivi, tra cui l’inerzia terapeutica, non sempre le terapie vengono somministrate come da linea guida” commenta Degli Esposti.
La durata superiore del trattamento con corticosteroidi incide decisamente sulla qualità di vita dei pazienti, aspetto che i medici avvertono in misura minore. La ricerca, infatti, ha evidenziato un disallineamento tra il percepito dei pazienti e quello dei medici, soprattutto in merito a uno degli effetti più evidenti e pesanti della patologia: la “fatigue”. Il 50% dei pazienti la considera uno degli elementi più gravosi della patologia, mentre il 73% ha riferito difficoltà di concentrazione a causa di questo sintomo.
Dal punto di vista dei clinici, al contrario, solo il 38% dei loro pazienti si sentiva affaticato e, di questi, hanno ritenuto che il 46% sperimentasse un alto livello di fatica.
“l medico valuta secondo priorità che sono l’efficacia del trattamento e la sua sicurezza, e quindi sceglie la terapia sulla base di questi criteri” aggiunge Degli Esposti. “Il paziente però sperimenta su di sé effetti indesiderati, come fatigue, insonnia, incremento di peso, irascibilità, che sono per lui questioni fondamentali. è quindi importante che la scelta terapeutica sia multi-attore: nelle scelte delle raccomandazioni terapeutiche il coinvolgimento delle associazioni dei pazienti è proprio motivato da questo aspetto”.
“Nell’ITP cronica – commenta Barbara Lovrencic, Presidente AIPIT (Associazione Italiana Porpora Immune Trombocitopenica) – quello che maggiormente impatta la qualità di vita è l’instabilità del livello delle piastrine perché comporta la costante ansia di se e quando il livello di piastrine scenderà tanto da causare emorragie, la possibilità di dover ricorrere a ulteriori trattamenti o l’ospedalizzazione. Per via della sua imprevedibilità e della stanchezza cronica, un sintomo fortemente impattante così come risulta anche dallo studio iWISh, l’ITP comporta molte limitazioni come ad esempio nell’attività sportiva e nella possibilità di viaggiare (sia per turismo che per lavoro) ma anche nell’attività lavorativa e di studio. Con il Covid-19 tutti abbiamo provato sulla nostra pelle cosa significhi vivere con la costante paura per la propria salute e quanto sia frustrante non potersi organizzare e vivere liberamente a causa di qualcosa che è fuori dal nostro controllo”.
Anche intervenire sulla formulazione dei farmaci inciderebbe positivamente sulla qualità di vita dei pazienti affetti da ITP. Infatti, come dichiarato dal 90% dei 1.507 pazienti intervistati nell’ambito dell’indagine “iWISh”, la possibilità di avvalersi di trattamenti alternativi, basati per esempio sull’assunzione di farmaci per via orale, inciderebbe positivamente anche sulla qualità di vita delle persone affette da ITP. Un aspetto questo molto importante ma purtroppo non abbastanza tenuto in considerazione.
“La formulazione orale sicuramente è più gradita dal paziente, ma è anche questo un aspetto da decidere multidisciplinarmente., perché a volte al maggior gradimento del paziente si associa una compliance inferiore, quindi è fondamentale che venga spiegato al paziente l’importanza della compliance” conclude Degli Esposti.
Un nuovo approccio terapeutico quindi è possibile, anzi auspicabile, per migliorare la qualità di vita dei pazienti affetti da questa rara patologia del sangue.
Trombocitopenia immune primaria: cos’è e a cosa è dovuta
L’ITP è una rara forma di malattia autoimmune della coagulazione, caratterizzata da carenza di piastrine o dalla riduzione del loro valore. L’incidenza dell’ITP ha un picco nella prima età pediatrica e nella fase adolescenziale, cui segue un costante incremento nella popolazione adulta. In particolare, è stimata tra 1,9 e 6,4 per 100.000 bambini per anno, negli adulti è di 3,3-9,9 (nella popolazione americana 9-204) per 100.000 individui per anno.
È caratterizzata da una carenza di piastrine nel sangue (piastrinopenia o trombocitopenia) in assenza di altre patologie associate. Nella ITP, tra i sintomi maggiormente riconoscibili figura la comparsa di porpora (comparsa di puntini rossi sulla pelle, noti anche come petecchie, micro emorragie puntiformi, non dolorose, dovute alla fuoriuscita di sangue per rottura di vasi capillari) ed ecchimosi a livello cutaneo, insieme a sanguinamenti dal naso o dalle gengive. Sono frequenti anche manifestazioni emorragiche in corrispondenza delle mucose, sanguinamenti dell’apparato gastro-intestinale e genito-urinario (presenza di sangue nelle urine) e, nelle donne, emorragie più abbondanti durante il ciclo.
L’emocromo rappresenta l’esame di laboratorio diagnostico di riferimento poiché permette di monitorare l’andamento della conta piastrinica, ovvero il numero di piastrine presenti in un microlitro di sangue.
La terapia di prima linea per i pazienti con nuova diagnosi di ITP si basa essenzialmente sulla somministrazione di corticosteroidi, da assumere per un periodo massimo di circa 15 giorni e poi, a scalare, per 4-6 settimane. Negli ultimi anni, come terapia di seconda linea vengono utilizzati gli agonisti del recettore della trombopoietina (TPO-mimetici).
di Marco Strambi