di Francesco Floris
Medical Device? C’è un “tasso di vetustà” del parco macchine sanitario italiano che “è esploso negli ultimi 6-7 anni”. Il paradosso del Covid? “Le gare d’appalto sono state più veloci che in tempi normali”. Tempi? “Pochi mesi invece che due, a volte più, anni, senza ricorsi spesso artificiosi alla giustizia amministrativa che bloccano le forniture”. Merito del “senso di responsabilità e urgenza delle aziende del settore” e del “Commissario Domenico Arcuri” che ha richiesto “delle indagini conoscitive fra le aziende” prima di lanciare i bandi. Lo dice in un’intervista a True Pharma Massimo Barberio, Director, Government Affairs, Policy and Healh Economics di General Electric Healthcare, toccando diversi punti sull’evoluzione del settore apparecchiature e dispositivi medici.
Come cambierà il mondo dei medical device con la fine del modello “ospedale-centrico” e il rafforzamento della medicina di territorio? “Medicina ospedaliera e medicina di territorio non sono in antitesi – dice Barberio –. Grazie alla remotizzazione si potrebbero avere centri di comando integrato a livello ospedaliero che gestiscano i pazienti in area critica e che dall’altra parte coordinino l’attività territoriale, altrimenti accade quello che abbiamo visto in questi mesi: il medico di base senza un coordinamento e un contatto diretto con lo specialista per conoscere banalmente le condizioni di trasferimento non puà ottimizzare, intervenire tempestivamente e quindi rendere efficace la medicina di territorio”. Il payback sui DM? “Norma impossibile da applicare, e infatti inapplicata, dall’agosto 2015. Ma che ha delle ricadute pesanti sui conti delle aziende: ne devono tenere conto ogni anno per gli accantonamenti come voce di bilancio. Una conseguenza che va a incidere in maniera negativa su investimenti e occupazione”.
Dottor, Barberio, in un suo recente articolo lei parla di “vetustà” del parco macchine sanitario italiano. Una vetustà critica anche per le implicazioni sanitarie e terapeutiche sui pazienti. La pandemia ha esacerbato questa situazione o migliorato il quadro?
Una premessa è d’obbligo: il problema dell’obsolescenza tecnologica del parco macchine sanitario dell’Italia non è di quest’anno, anzi. Da circa 6-7 anni notiamo un tasso di vetustà delle apparecchiature che è esploso. Con il Covid abbiamo avuto due conseguenze opposte: da una parte il grosso delle risorse sanitarie sono state destinate all’emergenza pandemica fermando ulteriormente il processo di ricambio fisiologico delle tecnologie necessarie per affrontare nuove terapie o tecniche di monitoraggio. Questo ha avuto un impatto in particolare negli ambiti delle patologie cardiovascolari e oncologiche, o in generale nel trattamento delle cronicità. Dall’altra sono state acquisite in maniera maggiore quelle strumentazioni direttamente coinvolte nella diagnosi delle complicazioni del virus: pensiamo alle polmoniti o ai problemi di carattere emorragico-polmonari. C’è stata in questo senso un’accelerazione e un aumento delle gare d’appalto da parte di Invitalia o Consip per dotare i nuovi ospedali Covid, o i vecchi ospedali riconvertiti, di nuove apparecchiature al passo con i tempi. Gare che incredibilmente hanno visto un’estrema velocizzazione delle procedure sia nell’effettuazione dei bandi di gara che nelle scelte di aggiudicazione. Questo ha portato a dei paradossi che per certi versi hanno preso in alcuni casi in contropiede le aziende, come per esempio quando veniva chiesto alle aziende di fornire nell’arco di pochi giorni delle proposte economico-commerciali piuttosto complesse. Ce la si è fatta guidati dal senso di urgenza, ma come operatore del settore, quando saremo tutti più tranquilli, qualche domanda me la farò e la farò: come è possibile che pre-Covid ci siano stati dei tempi di aggiudicazione per macchine diagnostiche intorno ai due anni e nel 2020, in piena pandemia, si sia arrivati intorno ai quattro mesi. C’è stato un tasso di ricorsi alla giustizia amministrativa, che di solito ferma o rallenta le gare molto basso, ma devo dire che buona parte del merito di questa rapidità è dovuta all’approccio del Commissario Domenico Arcuri che ha coinvolto con delle indagini conoscitive le aziende, chiedendo una valutazione, responsabile individuazione dei prodotti e della loro disponibilità, nonché tempi di consegna. Come General Electric lo abbiamo vissuto direttamente perché produciamo ventilatori meccanici per terapia intensiva e quest’anno c’è stata una collaborazione virtuosa che in tempi normali non c’è sempre stata, anzi, talvolta si sono registrate addirittura barriere fra fornitori e stazione appaltante molto difficili da sormontare.
La nuova formula post Covid che quasi tutti sembrano condividere parla di abbandonare il modello “ospedale-centrico” e di rafforzare la medicina di territorio e domiciliarizzazione delle cure. Come deve cambiare alle luce di ciò il settore dei medical device?
In primo luogo non sono d’accordo sul fatto che la medicina di territorio sia la soluzione assoluta. Che in Italia ci sia un’assistenza territoriale a volte carente è vero, com’è vero che non ci sono le risorse umane per garantirla in maniera efficace. Ma va chiarito un punto: non tutti i pazienti possono essere trattati a domicilio e non si può in tutti i casi fare a meno dell’ospedale. Pensiamo all’ossigenoterapia, al supporto con ossigeno del paziente colpito da Covid con sintomatologia leggera. Di certo potrebbe avere lo stesso supporto a casa con le opportune accortezze per l’isolamento e con i dispositivi adeguati. Il paziente con sintomatologia più importante invece non può essere assistito a casa. Per andare in quella direzione c’è la necessità di investimenti in supporti che servono per controllare e gestire il paziente non critico, va sottolineato, al proprio domicilio. Occorre in particolare anche assumere e formare il personale competente che così potrà utilizzare la strumentazione necessaria a domicilio. In generale non vedo in antitesi la medicina di territorio e quella ospedaliera. Grazie alla remotizzazione c’è già oggi la possibilità di avere centri di comando integrato a livello ospedaliero che gestiscano i pazienti in area critica ma dall’altra parte coordinino l’attività territoriale, altrimenti accade quello che abbiamo visto in questi mesi: il medico di base se non ha un coordinamento e un contatto diretto con lo specialista per conoscere banalmente le condizioni di trasferimento non rende efficace la medicina di territorio. E a mio giudizio la medicina di territorio non può diventare il parcheggio del paziente che sta un po’ meglio, viene mandato a casa, per liberare i posti letto delle strutture perché questo significherebbe comunque non garantire assistenza di qualità. Serve la tecnologia adatta, l’integrazione digitale e le risorse umane valide e preparate.
In Legge di Bilancio è stato approvato un emendamento sul payback dei farmaci mentre non è stato toccata la norma sui dispositivi medici. Quali sono le indicazioni delle aziende al legislatore?
Per i DM la situazione è ancora più complessa che per i farmaci. Perché non c’è solo il costo del prodotto in sé, ma anche della manutenzione, dell’installazione, della formazione, dell’adeguamento strutturale. Per esempio se vendere una risonanza magnetica ad un ospedale comporta per il produttore costruire intorno allo strumento, ad esempio, l’infrastruttura edilizia a cominciare dal rinforzo delle pavimentazioni. Quindi la complessità non è solo economica ma anche logistico-distributiva e di fatto ha reso fino ad oggi impossibile l’attuazione dei decreti sul payback per il ripiano delle quote che superano i tetti di spesa. Inoltre vi è un problema nell’identificazione, nel tracciamento amministrativo e temporale dei flussi di vendita e dei rapporti commerciali. Parliamo ad esempio banalmente di fatturazione annuale delle aziende su gare pluriennali per tracciare quanto dovuto. Fatturazione verso chi? Verso il distributore? Verso il grossista? Per il bene installato? Quali voci di fattura vanno inserite e quali no? Per questo motivo questa legge dell’agosto 2015 non è di fatto mai stata applicata ma ha comunque ugualmente delle ricadute pesanti sui conti delle aziende: che in particolare devono tenere conto ogni anno di accantonamenti nei bilanci societari, con evidenti ricadute negative su investimenti e occupazione.