C’è una poltrona vacante nella sanità lombarda. Una poltrona di peso. Che vale fra uno e due miliardi di euro del budget regionale destinato alla sanità ogni anno (18 miliardi complessivi). È quella di Giovanni Claudio Rozzoni, direttore generale socio-sanitario, dirigente di lungo corso appena pensionato da Regione. Lascia vuota una casella importante della Direzione generale Welfare. Nel gergo della burocrazia lombarda è il ruolo del dirigente a capo dell’Unità Organizzativa Rete Territoriale. Nei fatti è la figura che coordina attività e centri regionali di cura e assistenza alle fragilità, con un budget da quasi due miliardi annui, all’80 per cento destinati al privato accreditato: residenze sanitarie per anziani che da sole valgono 800 milioni e oltre ai soldi e le risorse c’è da capire come verranno gestite dal punto di vista organizzativo nei mesi in cui si teme una recrudescenza del virus; la disabilità con i centri diurni e sopratutto con la partita tutta da giocare sul Fondo Unico Disabilità fra gli assessorati al Welfare di Giulio Gallera e quello alle Politiche sociali di Stefano Bolognini; le dipendenze, con i Serd e gli Smi (Servizi multidisplinari intergati) ridisegnati a partire dalla riforma Maroni del 2015 che, almeno su Milano, ha spezzettato competenze, funzioni e centri su tre diverse aziende sociosanitarie e ospedali (Santi Paolo e Carlo, Fatebenefratelli-Sacco e il Niguarda con la farmaceutica); la salute mentale e la sanità penitenziaria. La nomina del post Rozzoni deve essere di un tecnico – assicurano ad Affaritaliani.it Milano fonti qualificate di Regione Lombardia – ma espressione degli equilibri dentro la maggioranza di centrodestra. Tradotto: un tecnico il cui nome è comunque figlio di un orientamento politico. Formalmente il nome viene indicato in maniera congiunta dall’assessore alla Sanità, quindi Gallera, e dal Direttore Generale Welfare, il ciellino Marco Trivelli, manager storico della Sanità lombarda che all’inizio della carriera ha svolto svolto attività di consulenza indirizzata ad aziende private e alla pubblica amministrazione dentro società come Consulting Team e Coopers&Lybrand. Trivelli vuole rifare la squadra nei mesi del post Covid rimescolando le carte. Ma la Lega, forza di maggioranza, non vuole un team tutto a trazione Comunione e Liberazione. Anche perché ci sono da scontare i mesi duri della pandemia.
Pur difendendo l’operato della giunta, al Pirellone c’è chi fa notare che qualcosa in Lombardia, di certo, non ha funzionato. Sulle Rsa soprattutto, sulla gestione degli anziani pazienti contagiati da Covid-19, sul fatto che sin dall’epoca formigoniana alcune zone della regione sembrano figlie di un Dio minore e altre meno. Pavia e il pavese, per esempio, dove dai tempi del “Celeste” i ricoveri per anziani hanno il doppio dei posti letto rispetto alla media regionale. Un nome forte che gira fra quelli candidati ad ottenere il posto è quello di Paola Sacchi: classe 1960, oggi Dirigente Struttura Salute Mentale, Dipendenze, Disabilità e Sanità Penitenziaria ma con una carriera tutta all’interno delle strutture tecniche lombarde e milanesi che si occupano di psichiatria e salute mentale, tossico e alcol dipendenze, carcere e misure alternative, residenzialità. Il nome piace ma bisogna vedere se le geometrie variabili fra Gallera, Bolognini e Trivelli troveranno la quadra e un accordo su di lei o se i partiti proveranno a mettere il naso nella nomina. Una nomina che, almeno a livello di tempistiche, si inserisce in un altro passaggio cruciale per la sanità regionale: a dicembre saranno passati cinque anni dalla riforma Maroni, la legge 23 del 2015, che ha modificato nel profondo tutti i servizi socio-sanitari e la gestione delle malattie croniche (14 miliardi l’anno, il budget) sotto lo slogan “l’ospedale-territorio”. Il Consiglio regionale deve esprimersi decidendo se confermare l’impianto a cinque anni dalla sua genesi, se modificarlo o stralciarlo del tutto. La riforma è stata messa nel mirino proprio nei mesi del Covid – ben più delle privatizzazione di Roberto Formigoni – perché i detrattori accusano quel sistema di aver facilitato la diffusione del virus negli ospedali indebolendo il ruolo dei presidi sul territorio e dei medici di base e di famiglia. Nel mondo dei dirigenti sanitari si discute invece molto di come rendere davvero attuativa la legge 23, per esempio con gli investimenti in telemedicina e medicina da remoto, sperimentati durante il lockdown, per realizzare davvero il concetto di “ospedale-territorio” che fa screening sui pazienti sfruttando le tecnologie più moderne e senza intasare ospedali, corsie, pronto soccorsi.
Questa intuizione si scontra però con i progetti di edilizia ospedaliera che solo a Milano prevedono l’allargamento o la costruzione da zero di numerosi maxi poli anche in termini di superfici: si pensi alla Città della Salute a Sesto San Giovanni, al nuovo Policlinico, al raddoppio del pediatrico Buzzi, all’idea di fondere fisicamente e non solo amministrativamente San Paolo e San Carlo, allo spostamento dell’ortopedico Galeazzi sull’area Mind ad Expo. Sono davvero necessarie – si chiede qualcuno – le maxi cittadelle della salute con ospedali e centri di ricerca se il grosso degli investimenti vanno a finanziare medicina da remoto invece che in presenza? Forse il Covid è solo una fase, ma c’è chi fa anche questi ragionamenti.