Torniamo a parlare di riforma della legislazione farmaceutica europea, dei suoi vantaggi (semplificazione ed efficienza), ma anche delle possibili criticità, soprattutto in materia di competitività, indebolimento della data protection e attrattività degli investimenti. Lo facciamo con Patrizia Olivari, Presidente e Amministratore Delegato di Ipsen Italia, società biofarmaceutica presente da più di 30 anni in Italia. Oltre a sviluppare farmaci innovativi in diverse aree terapeutiche (dall’oncologia alle neuroscienze fino alle malattie rare) l’azienda ha una forte attenzione alla gender equality considerata “un punto di partenza, non un traguardo, perché da qui vogliamo proseguire in un percorso virtuoso che vede nelle diversità una ricchezza”.
La riforma della legislazione farmaceutica in Europa quali scenari apre?
Innanzitutto, credo che la riforma della legislatura farmaceutica avvenga con una tempistica doverosa, visto che l’attuale normativa è in vigore da quasi 20 anni e il mondo della ricerca scientifica sta aprendo nuovi scenari di trattamento e soluzioni terapeutiche non immaginabili 20 anni fa. Un aspetto importante in valutazione riguarda la semplificazione e l’efficienza: la velocità d’azione regolatoria e lo snellimento dei processi autorizzativi contribuisce a garantire una risposta auspicabilmente più immediata nel portare l’innovazione ai pazienti, in tutta l’area Ue.
Quali sono invece le criticità?
La legislazione farmaceutica europea, se approvata così come presentata, avrà conseguenze molto importanti sia sulla competitività sia sull’attrattività dell’industria farmaceutica in Europa. L’indebolimento della data protection porta con sé rischi certi per gli investimenti in innovazione non compensati dal nuovo e più frammentato sistema incentivi molto più complesso e dai risultati incerti soprattutto a fronte della necessità di un piano di investimenti rafforzato in ricerca e sviluppo che garantisca un approccio più competitivo nei confronti dei Paesi extra Ue. Non dobbiamo dimenticare che Stati Uniti e Cina hanno più che raddoppiato i loro incentivi in questa direzione.
Come si può mitigare il rischio incertezza?
Da un lato, ci sarebbe la necessità non di ridurre, quanto piuttosto di lasciare inalterata o addirittura aumentare la protezione dei dati per assicurare maggiori investimenti nell’Unione Europea. Dall’altro, abbiamo l’esigenza di avere un piano industriale con una visione onnicomprensiva e in grado di guardare al futuro per tutte le aziende che investono nell’innovazione.
L’Italia ne sa qualcosa.
L’industria farmaceutica ha un impatto su circa il 2% del PIL italiano. Il nostro Paese è sicuramente uno degli hub più importanti in termini di produzione, di cui il 90% va in esportazione. Quindi, a maggior ragione, è per noi un asset fondamentale. Vedere ridotto e frammentato l’ambito della data protection e della protezione industriale, non agevola la visione del futuro. Va ampliata, invece, la capacità di gestione a livello europeo sia con incentivi sia con una maggiore indipendenza dal punto di vista industriale e produttivo.
Riguardo all’indipendenza, basti ricordare che il 70-80% della produzione dei principi attivi e degli eccipienti avviene al di fuori degli Stati membri dell’Ue.
Esattamente. Questa percentuale dà la misura di quanto sia urgente un approccio più strategico per garantire un ritorno alla centralità europea. Un altro aspetto rilevante della riforma riguarda l’ampliamento della gestione, ovvero l’ambizione di garantire a tutti gli Stati membri la possibilità di accedere a innovazioni terapeutiche. Gestione che, tuttavia, rimarrebbe molto in carico alle singole aziende. D’altro canto sarebbe utile poter intervenire anche sull’impegno degli Stati stessi per garantire un iter che sia il più adeguato possibile. La proposta non vede quindi un effettivo effort nel garantire l’accesso a tutti i Paesi.
Ci faccia un esempio.
Ad oggi, la media della tempistica europea per l’accesso ai farmaci è di oltre quattro anni. Questo significa che, non solo ci deve essere la volontà delle aziende di sottomettere i dossier, ma anche il bisogno da parte dei singoli Stati di avere un percorso che non vada a duplicare l’ambito europeo o, meglio, una gestione dei fondi dedicata alla sanità da parte dei singoli Stati membri che sia garante di un reale accesso ai farmaci stessi in ognuno di essi.
Qual è la vostra aspettativa e il contributo che vi sentite di dare all’elaborazione della normativa?
Da parte di Ipsen c’è la volontà di fornire tutti quegli elementi e quei commenti utili all’attuale legislatura, insieme a Farmindustria a livello italiano e con Efpia a livello europeo. Un’azione concertata con tutte le aziende pharma. Altro aspetto fondamentale è quello delle partnership e dell’ascolto dei diversi interlocutori, associazioni di pazienti, comunità scientifica e singoli Stati per riuscire a portare un’innovazione terapeutica che sia trasversale.
L’innovazione e la consapevolezza necessitano anche di essere comunicate. Recentemente si è celebrato in tutto il mondo il PBC Day, la giornata internazionale di sensibilizzazione sulla Colangite Biliare Primitiva. La PBC è una malattia, definita rara, che colpisce in modo particolare le donne. Ipsen promuove l’importanza di una maggiore informazione per migliorare la conoscenza sulle diverse patologie. In che modo?
Come Ipsen ci impegniamo in tre principali ambiti terapeutici, l’oncologia, le neuroscienze e ci stiamo affacciando in maniera sempre più importante all’ambito delle malattie rare, in questo caso epatologiche, come la colangite biliare primitiva. Il nostro impegno è proprio quello di portare innovazione terapeutica che possa andare a beneficio dei pazienti, di coloro che se ne prendono cura e di tutta la comunità scientifica. Ecco perché, anche in questo contesto, ci muoviamo in un’ottica di partnership con tutti gli interlocutori chiave che si occupano di questa patologia.
Quali sono gli obiettivi che vi ponete?
Sicuramente rendere più chiari e più noti i fattori determinanti della patologia e creare una rete di supporto per pazienti e caregiver per avere una diagnosi appropriata e più rapida. Inoltre, in un’ottica di pipeline, fornire soluzioni terapeutiche innovative che possano rispondere, nella maniera più personalizzata possibile, ai bisogni dei singoli pazienti, migliorandone la qualità della vita.
A proposito di approccio multi-stakeholder e di appropriatezza, avete lanciato un progetto, “DEDALO” legato alla gestione della spasticità post-ictus. In cosa consiste?
In Italia, circa 85mila persone sopravvivono ogni anno a un Ictus, spesso con delle ripercussioni gravemente invalidanti che richiedono un solido programma di trattamento e riabilitazione. Infatti, fino al 40% sviluppa una condizione di spasticità post-ictus. Mentre la gestione della fase acuta rappresenta una risposta diretta al problema, la fase cronica manca di una più ampia presa in carico del paziente e – molto spesso – anche di una diagnosi tempestiva che possa permettere l’accesso alle innovazioni terapeutiche e assistenziali a disposizione.
Quali sono le principali criticità?
Sebbene si registri una prevalenza di invalidità piuttosto elevata, a livello nazionale sono ancora molte le criticità che ostacolano una efficiente presa in carico della persona dopo la dimissione dall’ospedale. Infatti, ad oggi, 9 pazienti su 10 abbandonano il percorso di cura tra la fase acuta e la fase cronica. In questo scenario nasce il progetto DEDALO, che rappresenta il primo programma multi-stakeholder volto a identificare le principali criticità che ostacolano la presa in carico del paziente con spasticità post-ictus al fine di identificare percorsi che possano ottimizzare la gestione multidisciplinare della patologia.
Come?
Fondamentale il lavoro in partnership con tutti gli stakeholders coinvolti nella gestione del percorso di diagnosi e cura dei pazienti post ictus. In particolare, osserviamo che molti pazienti che vanno incontro a questo evento sono trattati in maniera più che adeguata nella fase acuta. Spesso, tuttavia, nella fase post acuta – quando, cioè, il paziente torna a casa e dovrebbe cominciare un percorso di riabilitazione terapeutica e fisioterapica – non viene preso in carico in maniera ottimale.
E questo che conseguenze comporta?
Può avere un impatto significativo non solo sulla qualità della vita dei pazienti e sulla loro indipendenza nel proseguire il proprio percorso lavorativo, ma anche in ottica di sostenibilità nella gestione delle risorse economiche. Accanto ai farmaci e alle innovazioni terapeutiche, è altrettanto importante garantire una continuità assistenziale ottimale e adeguata. In tal senso abbiamo avviato dei tavoli di lavoro a livello regionale per far sì che questo percorso di cura completo, anche nella fase post-acuta e nella gestione della spasticità post-ictus, sia una realtà per tutti in Italia.
Su quali aree terapeutiche vi state focalizzando in questa fase?
Sono tre le aree terapeutiche di cui ci occupiamo. C’è un ambito più storico per Ipsen, ovvero l’oncologia in cui siamo presenti fin dal 1990, da quando, cioè, l’azienda è arrivata in Italia. L’evoluzione della nostra pipeline ci porta ad avere un ruolo sempre maggiore nelle neuroscienze, di cui abbiamo citato poco fa la spasticità post-ictus, ma anche nelle malattie rare, come nel caso della Colangite Biliare Primitiva (PBC). Portare innovazione sul tutto il percorso di cura del paziente è una delle mission aziendali su cui ci stiamo concentrando.
Accanto all’innovazione, in questi anni avete ottenuto importanti attestazioni in merito alla vostra strategia di gender equality e di attenzione alla qualità dell’ambiente di lavoro.
Mi piace partire da un fatto. Ipsen è tra le prime aziende pharma ad aver ottenuto la certificazione UNI/PdR 125:2022, per la parità di genere. Ciò significa che siamo un’azienda meritocratica nell’approccio di genere, a cui si unisce una parità dal punto di vista salariale. Inoltre, tutte le nostre persone godono di una copertura assicurativa sanitaria e di un servizio di assistenza psicologica – estesi anche ai propri cari – oltre che di un checkup annuale. Ciò vuol dire avere un’attenzione reale e quotidiana nei confronti di tutti coloro che lavorano in Ipsen. La certificazione della gender equality per noi è un punto di partenza, non un traguardo, perché da qui vogliamo proseguire in un percorso virtuoso che vede nelle diversità una ricchezza.
Cosa vogliono dire quindi per voi termini come inclusione e benessere?
Siamo convinti che un ambiente di lavoro sano, che è stato per più anni certificato anche da Great Place To Work, permetta alle persone di esprimere al meglio il proprio potenziale. E poi, in franchezza, la bellezza di poter lavorare in un’azienda come Ipsen risiede proprio nella capacità di valorizzare i differenti punti di vista. Credo che l’intelligenza sociale di un team di persone che lavora bene insieme, sia sempre superiore alla brillantezza del singolo. Noi lo mettiamo in atto in un lavoro che è sempre cross-funzionale e a maggior valore per i pazienti. L’etica di ciò che facciamo deve essere parte integrante della quotidianità, non solo a beneficio dei nostri interlocutori esterni, ma come esempio per tutto il nostro management e per tutte le persone che lavorano all’interno dell’azienda.