L’ultima uscita pubblica ha aperto a un’ulteriore speranza nella lotta contro la pandemia Covid? “Sappiamo come curarlo ma serve la terza dose”. Il professor Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri Irccs parla chiaro sui mesi che attendono l’Italia. Ha spiegato in queste ore che per il trattamento dell’infezione “aspirina, nimesulide, celecoxib in genere garantiscono un miglioramento in tre-quattro giorni” ma “se non basta, si passa al cortisone e all’eparina. Con gli antinfiammatori il Covid si può curare a casa nella stragrande maggioranza dei casi”. In un’intervista esclusiva con True-News il Direttore del Mario Negri ricostruisce la storia di due anni di pandemia e traccia la direzione verso cui andare. Su tutte? Terza dose, vaccinazione degli Under 12 e donne in gravidanza, cure domiciliari in via di sviluppo e ricerca.
Professor Remuzzi, mettiamo un punto sulla pandemia a distanza di quasi due anni dal suo inizio…
Dai primi casi di polmonite interstiziale, in breve tempo è stata raccolta una varietà di informazioni sul SARS-CoV-2 da molti laboratori e centri di ricerca clinica e di base, di tutto il mondo. Grazie ai progressi della ricerca scientifica, abbiamo scoperto come il nuovo coronavirus infetta le cellule e come il nostro organismo risponde per difendersi. Abbiamo evidenze sempre più solide che la vera causa della progressione verso i casi più gravi di Covid-19 non è il virus in sé ma un’eccessiva risposta immunitaria e infiammatoria, innescata nei primi giorni dopo l’infezione. Inoltre, oggi sappiamo anche che la malattia non si limita al polmone o alle vie respiratorie superiori, ma può interessare anche il cuore, i reni, la cute e il cervello, sedi responsabili poi dei disturbi legati al Long-Covid. Grazie poi ad articolati studi clinici si sta delineando la durata dell’immunità. Oltre alla prevenzione attuata con i vaccini, oggi siamo in grado anche di curare il Covid-19 con farmaci efficaci, come ad esempio i nuovi anticorpi monoclonali e i nuovi promettenti antivirali. Questo virus ci ha comunque insegnato che fare previsioni e avere certezze è sbagliato.
I vaccini si sono dimostrati efficaci. Che messaggio vuole dare a chi ha ancora timore a farsi inoculare la dose?
Oggi esistono due epidemie: quella dei vaccinati e quella dei non vaccinati. La prima è paragonabile a un’influenza, la seconda a un’infezione potenzialmente letale. La ricerca e lo sviluppo di vaccini contro il SARS-CoV-2 è iniziata subito, a giugno 2020, a soli 5 mesi dalla prima segnalazione di infezione avvenuta in Cina. Oggi una cosa è certa: la sicurezza dei vaccini anti-Covid non è da mettere assolutamente in discussione. L’incertezza e il timore di sottoporsi a vaccinazione derivano probabilmente dalla rapidità con cui si è giunti ad ottenere questi vaccini. Ma è importante sottolineare che questa rapidità è stata ottenuta non perché siano state tralasciate verifiche di efficacia e di sicurezza, ma grazie a una serie di fattori combinati: dalla stretta collaborazione tra tutti i paesi del mondo al coinvolgimento di più aziende, che ha permesso di trovare velocemente le risorse economiche anche grazie all’ingente stanziamento di finanziamenti pubblici. Come anche l’utilizzo degli stessi metodi di ricerca già usati per studiare SARS e MERS (altri coronavirus), che ha fatto risparmiare ben 5 anni permettendo la tempestività di azione e l’utilizzo di una tecnologia innovativa. Infine mi sentire di sottolineare l’eliminazione e la semplificazione di molti passaggi burocratici come fattore di accelerazione.
Tutto questo deve quindi rassicurare e deve far capire che l’unica strategia per mettere un punto alla pandemia è la vaccinazione, grazie alla quale il rischio di ricovero e di decesso è drasticamente ridotto. Non possiamo convincere i no-vax, ma gli indecisi sì, e non sono pochi. Si potrà essere più tranquilli solo quando ci avvicineremo al 90% di vaccinati, compresi i giovani e i più piccoli.
Quindi vaccino per tutti anche sotto i 12 anni?
Una delle ragioni per vaccinare anche i bambini sotto i 12 anni è una malattia rara, la sindrome da infiammazione multisistemica, che si può manifestare in seguito al Covid-19. Solo negli Stati Uniti questa patologia ha interessato 4000 bambini lo scorso anno e molti di più nel resto del mondo. Certo, vaccinare i bambini per adesso non è una priorità perché si ammalano di meno, ma è anche vero che comunque si ammalano e, se succede, possono contrarre questa sindrome, che può lasciare disturbi e residui soprattutto a livello neurologico. Ci tengo, poi, a specificare anche un altro concetto. In questo momento i “nostri” bambini non si infettano facilmente, per cui la loro vaccinazione può non rappresentare la priorità. In altre parti del mondo, però, non è così: in Brasile, ad esempio, sono morti 900 bambini sotto i 5 anni su 500 mila morti in totale, perché c’è ancora molta circolazione virale. Negli Stati Uniti ne sono morti 113, con un numero di morti totali paragonabili a quelli del Brasile. Lo stesso è successo in Indonesia soprattutto per le condizioni sanitarie e perché in generale la popolazione è poco vaccinata. Quindi in sintesi: è vero che i bambini non si infettano quando c’è poca circolazione virale, però possono comunque ammalarsi e sviluppare la sindrome multisistemica antinfiammatoria. È probabile, quindi, che presto anche in Italia, come già successo negli Stati Uniti, arrivi il via libera a vaccinare anche la fascia 5-12 anni con il vaccino a mRNA Pfizer o Moderna. Naturalmente i ricercatori hanno tenuto conto che il sistema immunitario nei bambini è diverso: infatti, è previsto un dosaggio più basso (10 microgrammi), con due somministrazioni a distanza di due settimane.
E per le donne durante in gravidanza e durante l’allattamento?
Sono favorevole alla vaccinazione in gravidanza: prima di tutto perché le donne gravide hanno una ridotta capacità polmonare dovuta alla pressione esercitata dall’utero con i rischi di una malattia più grave. In secondo luogo perché il sistema immunitario in gravidanza è più debole. Per quanto riguarda l’allattamento è importante la vaccinazione poiché nel latte materno ci sono gli anticorpi che passano al bambino, anche se ancora non sappiamo ancora che tipo di protezione forniscano.
A suo parere è importante somministrare la terza dose, oppure, come afferma l’OMS, prima è opportuno vaccinare con due dosi tutto il mondo, in particolare i Paesi poveri?
Ritengo che la terza dose sia molto importante per alcune categorie. Ad esempio, per le persone con un sistema immunitario che non è così vivace come quella delle persone normali, come chi ha subito un trapianto di organo. Una situazione analoga è quella dei pazienti oncologici, anche se guariti. Poi ci sono le persone con difetti del sistema immunitario. La terza dose è poi consigliata anche agli operatori sanitari, come me, in quanto abbiamo costanti contatti con gli ammalati. L’efficacia della dose di richiamo è supportata da un recente studio del New England Journal of Medicine, che ha coinvolto 1,1 milioni di over 60 in Israele: in queste persone nei 20 giorni successivi alla somministrazione della “terza dose” (effettuata a più di 5 mesi dalla seconda dose) il rischio di forme gravi di malattia si è ridotto di 19 volte rispetto alle due dosi. Si tratta di un dato incoraggiante anche se un periodo di osservazione più lungo sarà utile per confermare ulteriormente che la maggiore efficacia del richiamo si manterrà nel tempo. Sono comunque del parere che al momento vaccinare con una terza dose chi è in buona salute e ha completato il ciclo vaccinale previsto, non rappresenti una priorità. Purtroppo, fino a quando il virus continuerà a circolare nel mondo, non potremo dichiararci fuori pericolo: per questo motivo vaccinare anche le popolazioni più sfortunate è un atto dovuto e necessario.
Il Suo studio sulle cure domiciliari a base di antinfiammatori e antivirali sembra davvero efficace e potrebbe cambiare il modo di combattere questa malattia, ce ne può parlare? Andrebbe quindi aggiornato il protocollo ministeriale?
I farmaci a disposizione oggi per curare il Covid-19 si dividono tra quelli da utilizzare a casa quando l’infezione è ancora in fase molto precoce e quelli che devono essere somministrati sotto controllo in ospedale. I farmaci utilizzabili a casa sono gli antinfiammatori classici, in grado di inibire la risposta infiammatoria, bloccando COX2, un enzima che stimola la produzione di proteine infiammatorie. Ed è proprio sull’utilizzo di inibitori di COX2, come Nimesulide e Celecoxib, che si basa il nostro studio sulle cure domiciliari, da effettuare molto precocemente. Risultati di anni di ricerche sono stati applicati ai pazienti affetti dal Covid-19, portando alla nascita di due studi clinici, consecutivi: il primo è COVER, uno studio retrospettivo, che ha coinvolto un campione modesto (90 pazienti) e che ha dimostrato come una terapia precoce a base di antinfiammatori è in grado di ridurre i ricoveri del 90%. I risultati di questo primo studio ci hanno incoraggiato ad intraprenderne uno nuovo, più ampio: COVER 2. Questo secondo studio, prospettico e matched-cohort, è stato da poco stato sottomesso ad un’autorevole rivista scientifica. Al momento è disponibile come preprint. Entrando nel dettaglio, di 108 pazienti curati con antinfiammatori, solo uno ha avuto bisogno di ricovero ospedaliero. Questi risultati vanno confrontati al percorso clinico di altrettanti pazienti, malati di Covid e curati con tachipirina e vigile attesa (comparabili per età, sesso, patologie preesistenti e sviluppo iniziale dei sintomi): di questi, 12 hanno avuto bisogno del ricovero. Quindi, i farmaci antinfiammatori, dati nelle prime fasi della malattia contrastano la sindrome iper-infiammatoria, il meccanismo che, dopo che il virus si è moltiplicato, può portare a forme severe. Il protocollo prevede poi che vengano fatti esami ematologici e che, a seconda degli esiti e della progressione clinica, si proceda con cortisonici, antibiotici o eparina, e con il ricovero in ospedale solo alla fine di percorso irrisolto. L’efficacia del nostro protocollo per le cure domiciliari è confermata dai risultati di uno studio israeliano sull’aspirina e uno indiano su un altro antinfiammatorio.
Cosa ne pensa delle altre cure in cantiere, come ad esempio la pillola anti-Covid della Merck?
Tra gli antivirali in fase di studio nell’ultimo periodo, il Molnupiravir, sviluppato originariamente per curare l’influenza, è sicuramente il più promettente. Uno studio clinico internazionale su 775 persone ad alto rischio, in età avanzata o obese, non vaccinate ha dimostrato che utilizzando questo farmaco entro cinque giorni dall’insorgenza dei sintomi c’è una riduzione della severità della malattia, della ospedalizzazione e della mortalità. A differenza del remdesivir, l’antivirale usato per curare dal Covid che si limitava a creare solo una specie di pausa nella replicazione del materiale genetico del virus, il molnupiravir è capace di creare un vero e proprio blocco permanente. Inoltre, a differenza del remdesivir e, a dirla tutta, anche degli anticorpi monoclonali, il Molnupiravir è facile da assumere (si assume per bocca) e la terapia può essere fatta in tranquillità a casa. È facile da trasportare, immagazzinare e conservare. Tutti punti a favore anche in vista di una sua distribuzione alle nazioni più povere. Infine, l’altro aspetto promettente è che il Molnupiravir potrebbe essere efficace non solo verso il SARS-CoV-2 ma anche verso altri coronavirus. Studi effettuati in laboratorio, poi, suggeriscono che oltre ad inibire la replicazione, questo farmaco sia in grado anche di bloccare la trasmissione e di ridurre la carica virale nei pazienti.
Che cosa ci ha insegnato questo virus e che insegnamento possiamo trarre per il futuro?
Purtroppo, questo virus ci ha fatto capire quanto poco possiamo nei confronti della natura. Ci ha trovati del tutto impreparati e incapaci, all’inizio, di fronteggiarlo. Non vogliamo assolutamente ritrovarci ancora nella condizione di non avere farmaci o risorse per fronteggiare una nuova eventuale pandemia. Abbiamo fatto “di necessità, virtù”, ma d’ora in poi dobbiamo agire d’anticipo, nella ricerca medico-scientifica. Negli Stati Uniti, ad esempio, alcuni gruppi di ricerca sono già al lavoro per creare farmaci antivirali per virus diversi dai coronavirus, a rischio di potenziale rapida diffusione nell’uomo e capaci di causare altre epidemie. Negli ultimi vent’anni ci sono state tre epidemie causate da coronavirus e, come afferma il Dottor Barton Haynes, autorevole studioso americano del North Carolina, “questo lavoro rappresenta una piattaforma che potrebbe prevenire, mitigare rapidamente, o porre fine ad una pandemia”. Infine, rispetto per l’ambiente con lo scopo di ridurre l’impatto che l’uomo ha sulla natura: se si mettesse più attenzione ai territori oggetto di intervento umano, probabilmente si potrebbero evitare spiacevoli vicende.