Prima i numeri: solo in Lombardia ci sono 73 Hospice e oltre 130 Enti accreditati per l’erogazione delle cure palliative domiciliari. Venti anni fa? Erano cinque in tutta Italia, di cui due in Lombardia (oggi sono quasi 300). Un’evoluzione esponenziale. Così è nata la Rete delle Cure Palliative più importante del Paese, indicata nel 2009 dal Consiglio d’Europa come un modello di risposta ai bisogni dei malati. E modello di risposta lo è stata certamente nell’ultimo anno e mezzo di pandemia. “Insieme alla Rete dell’Emergenza/Urgenza, che ha fatto da collante fra ospedali e Rsa, è stata un’organizzazione che si è messa a disposizione per risposte immediate 24 ore su 24, 365 giorni l’anno, proprio come è stata pensata all’origine”. Così ne sintetizza il ruolo il professor Furio Zucco, Presidente dell’Associazione scientifica Science and Therapy e dell’Associazione di volontariato Presenza Amica Onlus, intervenuto lo scorso 28 maggio a “Salute Direzione Nord – Turning Point”.
È lui uno degli uomini che ha contribuito a strutturare questo sistema in Lombardia su due cardini: da una parte gli hospice come unità di offerta; dall’altra le unità di cure palliative domiciliari (UCP-DOM). Un bilanciamento quasi perfetto fra soggetti erogatori pubblici e terzo settore, come non accade in altri ambiti del socio-sanitario. Il tutto coordinato nel territorio di ciascuna delle 8 ATS in specifiche Reti Locali di Cure Palliative prevedendo, unica regione in Italia, Dipartimenti interaziendali di Cure Palliative, di raccordo funzionale ed operativo tra differenti ASST, Enti erogatori pubblici e privati e tra le Associazioni di volontariato operanti in questo settore.
Cosa accade oggi alla luce delle trasformazioni? Bisogna prendere atto che “non si tratta solo di una rete specialistica – spiega Furio Zucco a True Pharma – ma di un sistema che si integrerà sempre di più, e qui c’è molto da lavorare, con la medicina territoriale e di base”. Importante sarà proprio da vedere cosa succederà ora “con la territorializzazione e la distrettualizzazione”, due delle parole chiave anche di quella che sarà la riforma della sanità lombarda oltre che del Recovery Plan, “perché le aree di confine fra ospedale e territorio sono sempre quelle più complesse da organizzare e da far funzionare”.
Complesse ma necessarie. Il paziente con una patologia che arriva alla fase avanzata ed evolutiva della malattia – quella che un’espressione gergale si definisce “fase terminale” – ha una serie di bisogni sanitari e socio sanitari ma anche di natura diversa: bisogni di supporto, economici, soprattutto psicologici, relazionali ed affettivi. E proprio su questa necessità ora c’è un nodo da sciogliere. Un “grido di dolore” lo definisce il Presidente dell’Associazione Scientifica Science and Therapy e di Presenza Amica: quello dei 2mila volontari delle associazioni lombarde che hanno interrotto la loro attività negli Hospice, o a domicilio, nella fase iniziale della pandemia. Ora? Anche se vaccinati la politica non ha ancora sciolto il rebus su quando, e con quali modalità, potranno tornare a “operare” fisicamente al fianco dei malati e delle loro famiglie. Principio di precauzione che ha imposto delle scelte radicali – certo – ma in una fase in cui il mondo sembra “riaprire” questa decisione lascia comunque l’amaro in bocca, oltre a privare di energie la risposta del sistema. Nel frattempo, il terzo settore si organizza. “Stiamo proponendo anche per il nostro comparto una serie di sviluppo in telemedicina” dice Zucco. Primo: il teleconsulto. Dove “sarà possibile fare attività consulenziale anche rispetto al medico specialista di cure palliative” perché “nei fatti lo abbiamo già implementato durante l’ultimo anno e mezzo in maniera artigianale con le videochiamate senza che di fosse una strutturazione formale e infrastrutturale del sistema”. “La nostra idea – spiega – è che pur non sostituendo l’accesso fisico e la vicinanza al paziente, l’integrazione da remoto possa essere parte del futuro nel realizzare le prima forme di televolontariato”. Uno slogan? “High tech, high touch”. Alta tecnologia, alto contatto con il malato e la sua famiglia.
Ecco come prende forma la Rete di Cure Palliative del futuro. Una rete che già serve a un bacino immenso di persone e relativi bisogni. I numeri? I malati che nella sola Lombardia potrebbero e dovrebbero avere accesso alla rete, oncologici e non, sono oltre 35mila ogni anno, secondo stime ufficiali. Considerando un nucleo familiare di quattro persone, ecco l’impatto anche dal punto di vista sociale. Per Furio Zucco si tratta di bisogni “che necessitano di una risposta coordinata” perché, per esempio, “alcuni sintomi non hanno un orario e una prevedibilità. Quando si manifestano devono avere una risposta pronta e continuativa nelle 24 ore”.
Proprio questo è il filone collegato dove c’è ancora tanto da lavorare: realizzare in maniera compiuta, al fianco della rete delle cure palliative anche una rete di terapia del dolore, come indicato da una Legge nazionale votata oltre 10 anni fa all’unanimità dal Parlamento, la Legge 38 del 2010. Con una sua governance e un ventaglio terapeutico di opzioni e trattamenti per alleviare la sofferenza estrema. I numeri da cui partire ci sono ma vanno incrementati. La Rete lombarda di Terapia del Dolore, anch’essa di riferimento a livello nazionale, si basa sull’approccio mutuato dal mondo anglo-americano “Hub&Spoke”: 4 hub e 25 Centri ospedalieri spoke per trattare chi è affetto da dolore cronico. Il problema nella penisola? “Che al contrario di quanto avviene negli Stati Uniti, la modellistica ‘Hub&Spoke’ in Italia non coordina in maniera rigida il flusso di accesso dei pazienti. Il diritto alla scelta è un cardine della nostra sanità ma ha la conseguenza di mettere in crisi la programmazione del flusso e tutto ciò che questo comporta banalmente in termini di risorse umane”.
Per quanto riguarda invece le opzioni terapeutiche e di trattamento globale del malato affetto da dolore persistente, tanto è già stato fatto. Per esempio? Nel rapporto con gli oppioidi, la morfina ed i suoi numerosi derivati. “La grande rivoluzione culturale?” si domanda il prof. Zucco. “Il distanziamento dall’oppiofobia, dalla paura di creare addiction e dipendenza attraverso i derivati utilizzati a scopo terapeutico è la prima area nella quale questo cambiamento di visione è avvenuto proprio per quello che riguarda il malato affetto da dolore con patologia oncologica”. “C’era una resistenza culturale che veniva da lontano” afferma Furio Zucco “ma poco alla volta si è riusciti a far capire al personale sanitario, innanzitutto ai medici, ma anche alla popolazione, quali sono i benefici nel poter trattare, non solo con la morfina (il farmaco capostipite) ma anche con i suoi derivati di sintesi, le forme dolorose più intense, difficile e perduranti nel tempo, per i malati nei quali le terapie specialistiche non possono o sono già state attuate con insuccesso. Per il trattamento del cosiddetto “dolore di base”, quello presente durante tutta la giornata, oltre agli oppioidi ad azione prolungata nel tempo (al massimo una o due assunzioni al giorno per bocca) sono da tempo a disposizione preparati a base di molecole quali la buprenorfina o il fentanyl che possono essere somministrati tramite un cerotto trasndermico, che viene cambiato ogni 3 giorni. Una grande innovazione, nei malati oncologici con dolore, è stato l’introduzione nella pratica clinica di preparati, sempre a base di fentanyl, somministrabili tramite la mucosa buccale oppure per via sub linguale o nasale; sono indicati nel caso riacutizzazioni giornaliere, definite di Dolore Episodico Intenso. Si tratta di farmaci hanno una velocità di azione simile alla somministrazione endovenosa, 5-15 minuti, che hanno il vantaggio di essere assunti dal malato, da solo oppure supportato dal suo care giver. Questi oppioidi contro il DEI, vengono di regola associati nel malato oncologico a quelli per il controllo del dolore di base.
Su questa “grande battaglia” rispetto all’utilizzo degli oppioidi e di altri derivati si è innestato in maniera negativa negli anni 2015-2019 il fenomeno di abuso e misuso esploso in Usa. Un “fiume in piena” lo definisce Zucco, dove le “ricette facili” prescritte in maniera inappropriata dai medici nordamericani (anche per trattare dolori per esempio muscolari o il mal di schiena) hanno creato un problema di dipendenza ed anche di decessi dovuti a sovradosaggio da autosomministrazione con numeri impressionanti e con gli ex pazienti che, una volta finiti i trattamenti, si rivolgono ai mercati illegali per continuare a reperire le sostanze.
“Negli Stati Uniti il maggior numero di problemi è stato creato dall’utilizzo improprio e inappropriato degli oppioidi, prescritti al di fuori della “buona pratica clinica” in pazienti non malati di cancro ma affetti da dolore non cronico, oltretutto controllabile con farmaci e con metodi differenti dagli oppioidi” spiega Zucco. Mentre in Italia ciò non è avvenuto in quanto “la rete di protezione continuativa rimane il nostro sistema sanitario” dove “il medico di medicina generale e gli specialisti non prescrivono farmaci, in particolare gli oppioidi, per poi abbandonare il paziente ma continuano a seguirlo e a consigliarlo” e “sicuramente l’abuso nella penisola è estremamente limitato, come dimostrano i dati recenti dei nuclei operativi sulle tossicodipendenze, per non parlare dell’assenza di segnalazioni di morti secondarie ad utilizzo di oppioide ad uso terapeutico nel malati oncologici e non oncologici”.
La Terapia del Dolore è, di fatto, un ventaglio di opzioni terapeutiche da utilizzare in maniera appropriata e coordinata, sulla base di una “profilazione” del paziente oncologico (ma anche non oncologico) e della sua tipologia di dolore. In base alla diagnosi, inizialmente fatta dal medico di famiglia che si avvale, nelle forme più complesse, dei colleghi dei Centri specialistici ospedalieri di Terapia del Dolore, è possibile utilizzare non solo i farmaci oppioidi; sulla base di percorsi ben definiti vengono prescritti altri farmaci, ad esempio gli antiinfiammatori non steroidei, scegliendo quelli a miglior profilo di sicurezza/efficacia e, ove necessari, i farmaci cortisonici. Ciò sulla base di uno schema terapeutico a livello mondiale, sin dagli anni 90, proprio dagli specialisti milanesi. Una grande innovazione è stata portata in alcune forme di dolore che nascono all’interno del sistema nervoso (ad esempio le nevralgie) da una categoria di farmaci nati come antiepilettici ma che, a dosaggi differenti, si sono rivelati utilissimi nel controllare forme dolorose intensissime. Infine esistono metodi più avanzati, praticati presso i Centri specialistici nei malati a maggior complessità, di controllo del dolore cronico grazie a specifiche tecniche di infiltrazione, di stimolazione elettrica o di neuromodulazione farmacologica portati a livello della colonna vertebrale
Di fronte a questa “variabilità”, a questo ampia possibilità di scelta per il medico, qual ‘è oggi il quadro italiano? “Voglio vedere il bicchiere mezzo pieno” chiude il professor Furio Zucco. Con un’avvertenza: “C’è molto da costruire a livello di formazione. Ultimamente sono stati fatti passi in avanti, perché da circa due anni per le Università italiane è obbligatorio programmare due CFU all’interno dei percorsi accademici pre-laurea, rispettivamente dedicati alla Terapia del Dolore e alle Cure Palliative, sia per gli studenti di medicina sia per quelli delle professioni sanitarie, in primis i futuri infermieri” mentre “a livello lombardo, grazie all’ente formativo della Regione, Polis-Accademia, già d 2016 abbiamo lanciato grandi progetti di formazione che hanno già coinvolto circa 3 mila fra medici, infermieri, riabilitatori, psicologi, assistenti sociali, operatori socio-sanitari, attivi nelle 2 Reti regionali di Cure Palliative e di Terapia del dolore. Stiamo ora lavorando ad un piano pluriennale per offrire specifici pacchetti formativi sulle CP e sulla TD alle migliaia di èquipe che operano all’interno degli Ospedali, delle RSA e sul territorio, ad esempio ai medici di famiglia e gli infermieri di comunità. Ed infine stiamo progettando una formazione omogenea per i volontari e per i bambini ed i minori. Un piano che non ha eguali in Italia per numero dei formati, per qualità dei formatori e dei Centri di formazione”.