Fumata bianca e tanti applausi. Mario Draghi è volato in Algeria, ha incontrato il suo omologo Abdelmadjid Tebboune e firmato, di fatto, un accordo che consentirà all’Italia di acquistare nove miliardi di metri cubi di gas da Algeri. Tre prenderanno la strada di Roma già quest’anno, transitando dal gasdotto Transmed da Capo Bon, in Tunisia, a Mazara del Vallo, in Sicilia. I restanti saranno destinati al 2023, metà in gnl, e cioè gas liquefatto, e l’altra metà in gas naturale.
La missione africana
La missione di Draghi in Africa ha il chiaro obiettivo di smarcare Roma dalla dipendenza energetica russa. Perché – questa è la narrazione di fondo – continuare a fare affari con Vladimir Putin, oltre a foraggiare Mosca, impegnata nel conflitto in Ucraina, legittimerebbe un “dittatore”. Se l’Algeria, come sembra, è in grado di sostituire un terzo delle forniture russe complessive di gas che il Cremlino vende al nostro Paese (circa 29-30 miliardi di metri cubi all’anno), il premier deve però trovare ulteriori agganci, o rafforzare alleanze esistenti, per tagliare definitivamente il cordone energetico che ha sempre legato l’Italia alla Russia. E allora ecco spiegato il percorso africano di Draghi, impegnato in un tour de force che toccherà, dopo l’Algeria, anche Congo, Angola e Mozambico.
Doppia morale
A quanto pare, tanto il salto da “autocrate” a “dittatore”, quanto quello da “regime anti democratico” a “partner commerciale” è più breve di quanto non si possa pensare. E cambia, ovviamente, in base alle esigenze geopolitiche del momento. Mettiamoci nei panni dell’Europa (e, di riflesso, del governo italiano) e sintetizziamo il suo punto di vista: Putin è un dittatore e nessun Paese democratico dovrebbe più acquistare gas o petrolio dalla Russia, così da costringere Mosca al default. Benissimo, posizione più che legittima. Ma se, oltre a precise strategie geopolitiche, le decisioni di Ue e Italia sono mosse anche dalla morale (“non foraggiare un dittatore”, vero o presunto che sia), allora c’è qualcosa che non torna in questo ragionamento. Anche perché, dando un’occhiata ai possibili eredi commerciali italiani della Russia, non è che troviamo il fior fiore delle democrazie. Anzi: la maggior parte dei Paesi citati dai media o in lizza non solo ha molto poco di democratico, ma ha dimostrato pure di avere un’idea ambigua nei confronti di Mosca.
I sostituti energetici di Mosca
Partiamo dal dato più emblematico di tutti. I governi che dovrebbero sostituire la Russia nell’approvvigionamento energetico dell’Italia sono gli stessi che, pochi giorni fa, hanno votato contro o si sono astenuti quando all’Onu è stata presentata una mozione per escludere Mosca dal Consiglio dei diritti umani. Partiamo dall’Algeria, qualche mese fa sollecitata dall’Alto commissariato per i diritti umani delle Nazioni Unite di porre fine alla detenzione arbitraria di giornalisti e oppositori politici. In Congo e Nigeria, in termini di violazione dei diritti umani, la situazione sembrerebbe essere ancora più complessa, almeno a giudicare dai vari rapporti di Onu, Amnesty ed Europarlamento. Per quanto riguarda, invece, la situazione in Ucraina, il Congo ha votato contro l’esclusione della Russia dal consiglio dell’Onu mentre la Nigeria si è astenuta, così come hanno fatto Mozambico e Angola. Per la cronaca, pure Qatar e Azerbaijan, altri due nomi papabili per sostituire il vuoto energetico che potrebbe lasciare la Russia, hanno avuto richiami e scatenato polemiche sul tema dei diritti umani.
L’“eccezione” Erdogan
C’è poi da aprire una piccola parentesi su Egitto e Turchia. La mossa militare della Russia in Ucraina ha giustamente indignato l’Unione europea. La stessa Ue, tuttavia, non è sembrata indignata in altre circostanze. Prendiamo le tristi vicende egiziane che hanno coinvolto prima Giulio Regeni poi Patrick Zaki. Al di là di tante parole di facciata, nessuno si è fatto avanti per proporre sanzioni economiche contro l’Egitto per i due fatti sopra riportati. Prendiamo, adesso, la Turchia. Il Paese guidato da Recep Tayyip Erdogan si è ritirato dalla Convenzione di Istanbul (relativa alla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica), è stato teatro di incarcerazioni di vari attivisti e politici, e Ankara sta pure occupando militarmente la parte settentrionale di Cipro dopo aver invaso l’isola – un Paese sovrano come l’Ucraina – nel 1974. Insomma, va benissimo puntare il dito contro il “dittatore” Putin e accusarlo delle peggiori nefandezze.
Bisognerebbe però evitare di sostituirlo con altri personaggi lontani dai valori democratici, soprattutto se intendiamo usare un termometro valoriale e morale per giustificare la fine dei rapporti commerciali ed energetici con Mosca. Come abbiamo visto, infatti, i sostituti della Russia non sono governi e Stati propriamente democratici né tanto meno ferventi protettori dei diritti umani nell’accezione occidentale del termine.