Perché leggere questo articolo: Per capire come mai non è più alla Farnesina, ormai, che si tracciano le linee della politica estera italiana. E, anzi il vero dilemma è capire se l’Italia ha ancora margini di politica estera.
Antonio Tajani ha avuto di che esultare, poco dopo l’assalto al Parlamento del Brasile. L’account Twitter ufficiale di Lula ha messo “Mi piace” al post con cui Tajani e la Farnesina condannavano gli assalti dei sostenitori di Jair Bolsonaro. La dichiarazione, espressa in audizione alla Commissione Esteri del Senato, segnala il vuoto di potere della politica estera italiana.
Il declino politico della Farnesina
Tajani non ne ha colpe. Non ne aveva, ironie a parte, Luigi Di Maio. Così come non lo avevano una serie di inquilini della Farnesina che andavano da Emma Bonino a Enzo Moavero Milanesi. L’Italia, ormai, non fa più politica estera, al massimo si limita alla diplomazia. Ovvero: alla gestione del formale e del contingente, al mantenimento dei rapporti coi Paesi terzi. Tema fondamentale e che in alcuni casi (vedasi la liberazione di Alessia Piperno dall’Iran) produce risultati. Ma che si sostanzia in un declino del peso della politica estera nel quadro del sistema-Paese.
Il governo Meloni conferma un trend che gli esecutivi di Giuseppe Conte e Mario Draghi avevano consolidato. La diplomazia è delegata all’efficace rete di ambasciatori, spesso decentralizzata, e al Segretario Generale della Farnesina. Il Ministero degli Esteri, nel suo vertice politico, decide poco o nulla. La politica estera è in larga parte blindata dal doppio vincolo esterno, europeo e atlantico. Gli spazi di manovra sono rivendicati da Palazzo Chigi per le grandi decisioni strategiche.
Meloni sulla scia di Conte e Draghi
Lo abbiamo visto durante la decisione sulla manovra finanziaria del 2018 negoziata da Conte a Bruxelles; ne abbiamo avuto conferma durante il completamento dell’adesione alla Via della Seta nel 2019 e le risposte alla pandemia nel 2020. Lo abbiamo avuto palesemente sotto gli occhi con la condotta da “presidenza imperiale” dell’inquilino di Palazzo Chigi nell’era Draghi. Capace di mettere le relazioni personali al di sopra, o in supplenza, del vuoto di politica estera. Sia che si parlasse di Pnrr, come nel 2021, sia che il tema fossero il sostegno all’Ucraina o le forniture energetiche, come accaduto nel 2022.
Giorgia Meloni si inserisce in un trend consolidato. Il margine di manovra di politica estera è in capo a Palazzo Chigi. Alla Farnesina resta la supervisione all’ordinaria amministrazione. Che si traduce, in tempi di guerra asimmetrica tra Occidente e Russia, nella constatazione dell’impossibilità di un’iniziativa europea sulla mediazione nella guerra in Ucraina da parte di Tajani. In visite-passerella, come quella a Ankara, non sostanziate da accordi politici. Nel “sorpasso” da parte di Bruno Vespa su Tajani nell’invito di Volodymyr Zelensky nel nostro Paese, sia pure in forma virtuale, al Festival di Sanremo.
Il “vuoto” della Farnesina nei vertici-chiave
Al G20 di Bali Meloni è andata accompagnata dal Ministro dell’Economia e delle Finanze Giancarlo Giorgetti e dal sottosegretario Giovanbattista Fazzolari. Alla visita con Papa Francesco aveva al suo fianco il devoto cattolico sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano. Al Forum di Davos l’Italia era rappresentata dal Ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara.
Non è colpa di Tajani, ma dalla difficoltà effettiva della Farnesina di agire laddove gli spazi sono compressi. Tajani può, al massimo, avere il ruolo di facilitatore in nome di una corposa rete personale che mancava a molti suoi predecessori. Ne abbiamo visto un esempio nella recente missione congiunta con Matteo Piantedosi in Tunisia, laddove però il ruolo operativo era quello del Ministro dell’Interno, negoziatore sul tema del controllo dei flussi migratori.
Chi sale e chi scende nel risiko dei ministeri
Negli ultimi quindici anni, tolte le eccezioni di Franco Frattini, presidio atlantista nei governi Berlusconi, e Paolo Gentiloni, negoziatore degli Accordi di Skhirat sulla Libia, pochi Ministri degli Esteri hanno avuto un ruolo effettivo. Il controllo de facto della politica estera, nelle sue dimensioni residuali, è stata accentrata su Palazzo Chigi. Sostanzialmente, hanno più spazio di manovra discrezionale dicasteri come la Difesa, come mostrato da Lorenzo Guerini e Guido Crosetto sull’Ucraina, e spesso lo stesso Viminale, per la questione immigrazione. Oltre, ovviamente, al Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza che coordina i servizi segreti.
La conseguenza? Essere Ministri degli Esteri in un Paese con margini di manovra in declino è, di conseguenza, sempre meno decisivo negli equilibri politici di ogni esecutivo. E la maggiore continuità di Meloni con i suoi predecessori si nota proprio dalla presa di consapevolezza di un dato