“La storia mi darà ragione”. Joe Biden, alla sua quarta conferenza stampa in pochi giorni dopo il lungo silenzio successivo alla caduta di Kabul, si dice certo che i posteri riconosceranno la sua scelta di lasciare l’Afghanistan “come la più logica e razionale”.
Kabul è perduta e l’andamento sul campo – con “la più difficile operazione di evacuazione della storia”, sempre a detta del presidente – sembra dare torto all’inquilino della Casa Bianca. È chiaro che il precipitare degli eventi in così poco tempo – dal 14 aprile, quando Biden aveva annunciato di rispettare l’accordo coi talebani firmato nel 2020 da Trump, al 15 agosto, data della capitolazione della capitale ai talebani – gettano ombre sull’exit strategy dall’Afghanistan e sull’intera leadership globale della politica estera americana.
Gli Stati Uniti sfidano la Cina sull’Afghanistan
Occorre però sforzarsi di guardare oltre lo sconforto e l’impotenza per il dramma di un paese ripiombato all’inferno, e provare a comprendere il senso della scelta americana: con l’abbandono dell’Afghanistan gli Stati Uniti hanno definitivamente lanciato il guanto di sfida alla Cina. Al di là del disonore per il fallimento di una missione durata vent’anni, del salasso di una guerra costata 2,6 trilioni di dollari – più della ricostruzione europea dopo la II Guerra Mondiale col Piano Marshall – e 6mila vite tra i militari e contractors e di fronte ai fantasmi delle immagini dell’aeroporto di Kabul – che ha ricordato agli americani le immagini di alcuni dei più tragici fallimenti della loro storia (link articolo intervista Baritono); perché gli Stati Uniti hanno lasciato l’Afghanistan?
La vera domanda da porsi per comprendere le ragioni della scelta americana è più cruda: a cosa serve l’Afghanistan? Lo scorso 8 luglio, prima dell’inesorabile piega degli eventi, Biden era stato chiaro: “Gli Stati Uniti non possono permettersi di rimanere legati a politiche che rispondono a un mondo com’era 20 anni fa. Dobbiamo affrontare le minacce dove sono oggi”.
Cina, Stati Uniti e la realpolitik
Dietro il ritiro ci sono ragioni tattico-strategie di realpolitik che possono suonare ciniche ma non illogiche: dal 2001 le priorità della politica estera e di sicurezza americana sono mutate e questo ha comportato la fine della missione in Afghanistan. In vent’anni gli interessi nazionali sono mutati: la competizione con la Cina e le minacce informatiche da questioni periferiche di inizio millennio hanno preso il sopravvento.
Dal punto di vista del contrasto al terrorismo, la missione in Afghanistan ha perso priorità con il crollo dell’influenza di Al Quaeda, in seguito all’uccisione di Osama bin Laden nel 2011 e la proliferazione di altri gruppi jihadisti in Medio oriente (su tutti, l’Isis e i gruppi sponsorizzati dall’Iran). A partire da Obama, la strategia antiterrorismo americana sembra essersi focalizzata su aree del mondo lontane da Kabul.
Il secondo punto è probabilmente ancora più centrale per la politica estera americana: l’Afghanistan può essere utile nel contenimento della Cina? La strategia americana si basa su un quadrilatero che ruota intorno ad Australia, India e Giappone per contrastare la Cina via mare. L’Afghanistan, tagliato fuori dal Quad di accerchiamento marittimo, inizialmente aveva funzione di avamposto per il controllo delle linee di comunicazione e di spionaggio nei confronti di Cina e Russia.
Negli ultimi anni gli americani sembrano giunti a una nuova conclusione. Per Alan Fabbri di Limes “l’impressione è che l’Afghanistan sia un buco nero da lasciare alle potenze antagoniste: che se ne occupino loro, nella speranza che anch’esse cadano dentro la tomba degli imperi”.
L’Afghanistan una trappola per la Cina
L’Afghanistan sarebbe quindi una trappola per la Cina, che condivide 76 chilometri di confine il paese che rappresenta una delle principali fonti d’instabilità dell’area. Tra gli anni Novanta e l’intervento americano del 2001 sono avvenuti lungo il mitico corridoio del Wakhan ripetuti contatti tra talebani e uiguri dello Xinjiang cinese. Il rischio della proliferazione di nuove cellule terroristiche a cavallo della frontiera e il vuoto di potere causato dalla partenza americana, costringerà nei prossimi anni il Dragone cinese a investire una mole considerevole di risorse umane, economiche e d’intelligence.
Emanuele Pietrobon di Insideover ipotizza che “mentre la dirigenza cinese cercherà di domare gli studiosi del Corano nel nome della realizzazione della Nuova Via della Seta e della stabilità in Xinjiang, la Casa Bianca profitterà del disimpegno per impegnarsi nei teatri che contano, in primis l’Indo-Pacifico”.
Il ritiro dall’Afghanistan ha innescato una serie di cambi di equilibri non solo in Medio oriente ma in tutta l’Asia, non per forza un domino destinato a danneggiare la superpotenza americana. Da tempo gli Stati Uniti hanno trovato nell’India il loro perno terrestre in Asia, mettendo in secondo piano Turchia e Pakistan, altri due attori che guardano con apprensione alla conquista talebana. Lo spostamento del baricentro del perimetro strategico americano e la contemporanea destabilizzazione dell’area coi talebani potrebbe permettere agli Usa di mettere nel sacco quattro piccioni con una fava: Cina, Russia, Turchia e Iran.
In Afghanistan si sta giocando una partita a scacchi che coinvolge tutti gli attori regionali e l’egemonia del pianeta. Con buona pace degli afghani.