Uno spettro si aggira per l’Italia: i liberalprogressisti guerrafondai. Pacifisti ieri, interventisti oggi. Benpensanti con l’elmetto pronti a tutto: armiamoci, e partite. I discorsi che molti maitre-a-penser diffondono in queste settimane riguardo alla risposta da opporre all’aggressione russa all’Ucraina (che è immotivata e da condannare in toto) denotano toni incendiari che non contribuiscono certamente a una pacata comprensione della questione.
La retorica neo-maccartista della caccia al defezionista
Condannare la Russia è comprensibile e giustificato. Chiedere reazioni più o meno simmetriche idem. Usare una retorica guerrafondaia o, peggio, ragionare con un clima neo-maccartista e scatenare una caccia al defezionista (saldando pacifisti e fan di Putin nella stessa categoria) è deleterio. Gad Lerner si chiedere retoricamente se “Putin è il nuovo Hitler” e se nel caso non sia necessario “armare una guerra totale” contro lo Zar. Jacopo Iacoboni e Gianni Riotta lanciano, rispettivamente, su La Stampa e Repubblica la caccia al filorusso. Nel tritacarne finisce anche l’ex presidente Rai Marcello Foa assieme a Barbara Spinelli, rea di aver visto un suo articolo ripreso dall’Ambasciata Russa in Italia. Figure di alto profilo equiparate a un Diego Fusaro qualsiasi.
Sul Corriere della Sera Federico Rampini scheda il mondo che sta con Putin. Il bianco e il nero, il Bene Assoluto contro il Male Assoluto. Il Male a cui muovere guerra: li ricordiamo, tutti questi commentatori, ai tempi del Premio Nobel per la Pace del 2009, esaltato come un “sogno americano” da Rampini, che solo fuori tempo massimo si è accorto delle guerre dei droni. Riotta nel 2006 ricevette da Massimo D’Alema, allora ministro degli Esteri, una risposta a un articolo sul Corriere in cui stigmatizzava la decisione del governo Prodi di ritirare la missione in Iraq dopo aver sostenuto la campagna bellica contro Saddam Hussein. Iacoboni più volte ha visto sue dichiarazioni sulla Russia smentite o ridimensionate. Gad Lerner nel 2011 dedicò un articolo ai “cinici che volevano il Rais” dichiarando fondamentale l’appoggio al conflitto contro la Libia di Gheddafi.
L’invito a “cercar la bella morte” dalle colonne del Corriere
Dunque, ognuno è stato pacifista e guerrafondaio a targhe alterne. Una buona camomilla al mattino sarebbe consigliata prima di mettersi a scrivere su Twitter: “Vorrei ricordare che in una guerra non ci sono pacifisti. Ci sono solo fiancheggiatori dell’aggressore”, ha scritto su Twitter David Carretta su Il Foglio. Carretta è commentatore che chi scrive stima per l’acume e la preparazione. Non ci aspettavamo da lui un’uscita tanto manichea, che non rende giustizia alla sua complessità di pensiero. Ma il suo pensiero riassume la “caccia all’uomo” andata in scena in queste ore. Abbiamo Federico Fubini in prima pagina sul Corriere che si lamenta perché “noi occidentali stiamo perdendo la potenza delle armi perché non sopportiamo più di subire perdite in una guerra convenzionale. All’epoca dei nostri nonni un caduto in famiglia era motivo d’orgoglio, oggi è considerato inaccettabile”: un invito “a cercar la bella morte” che mette i brividi, sostenuto nientemeno da Paolo Mieli che lo ha esplicitamente difeso.
Il liberalinterventismo dei progressisti della stampa italiana
Marc Innaro messo sotto accusa in Parlamento da Enrico Letta e dal Partito Democratico semplicemente per la scelta di fare coerentemente il suo lavoro, Andrea Nicastro attaccato direttamente come filo-russo da un giornalista ucraino in un salotto televisivo mentre si trovava a Mariupol, sede del terribile Battaglione Azov, l’assalto postumo alla memoria di Giulietto Chiesa, i casi di Foa e Spinelli, la messa all’indice di Dostoevskij sono una faccia della medaglia. Il liberalinterventismo dei progressisti della stampa nostrana, che chiamano a combattere una guerra aperta vissuta come un’esperienza di liberazione da un Male ontologicamente da combattere, è l’altra, principale e preoccupante.
Al dibattito italiano mancano un Terzani e una Fallaci
Dunque sarebbe, per questi analisti, un renitente pacifista filorusso Sergio Romano, “ambasciatore degli ambasciatori”, che ha chiesto una scelta diplomatica per porre fine al conflitto? Lo sarebbero commentatori e analisti come Alberto Negri e Aldo Giannuli che pur condannando Putin hanno chiesto una razionalità nella risposta? Lo sarebbe Alessandro Orsini, studioso di sicurezza internazionale della Luiss, per aver chiesto di guardare la questione in ampia prospettiva? Lo sarebbe Pierluigi Bersani, a cui “non piace l’Ue solo con l’elmetto”? Lo sarebbe Franco Cardini? Riflettiamoci e pensiamo. Forse alla nostra epoca mancano un Tiziano Terzani e un’Oriana Fallaci capaci di esprimere, come accaduto nel 2001 sul “Corriere”, visioni divergenti in forma di lettera e dialogo contemperando visioni reciproche nel rispetto delle opinioni. Come del resto chiede anche il “fiancheggiatore dell’aggressore” (cit.) per eccellenza di questi tempi, Papa Francesco.
Smettiamola di giocare a chi ha il cannone più lungo
Serve un profondo e grande richiamo al buonsenso anche sul fronte interno italiano. Parlare con questa leggerezza di guerra e tensioni internazionali rischia di generare il caos in un’opinione pubblica che, per la maggior parte, sostiene che la Russia sia un aggressore ma anche che l’Italia dovrebbe impegnarsi fattivamente per la pace: il 76% degli intervistati in un sondaggio curato da Enzo Risso per “Domani” si è dichiarato scettico sull’utilità dell’armare direttamente gli ucraini, trasformando il loro Paese in un Vietnam per la Russia, per una rapida fine del conflitto. “L’obiettivo di ogni politica dovrebbe essere preservare la democrazia e quella crescita economica che la rende possibile. Non avere un cannone più lungo di quello di Putin”, scrive nel suo editoriale sul medesimo quotidiano Stefano Feltri. Mettiamo la nostra firma in calce a questa visione. La trincea da difendere è quella del buonsenso.