Negli scorsi giorni i quotidiani si sono scatenati attorno alle Linee guida per una comunicazione inclusiva pubblicate dalla Commissione europea (e poi ritirate). Dai titoli clickbait agli articoli che si aprono con delle vere e proprie preghiere, i giornali hanno lanciato l’allarme verso la cancel culture, che – si dice – minaccerebbe di ridurre la libertà di espressione e la libertà di culto. Quest’ultimo timore è legato al consiglio di usare il più ampio termine “festività” rispetto allo specifico “Natale”.
Il caso delle linee guida della Commissione europea
La realtà dei fatti, però, è più complessa. Innanzitutto le Linee guida sono state pensate per un uso interno agli uffici dell’Unione Europea, non per il grande pubblico. Non vogliono quindi indirizzare la comunicazione di chi vive in Europa, ma solo guidare verso una maggiore inclusione chi lavora negli organi dell’UE. Oltre a ciò, gli ambiti di riflessione sono stati molteplici: si passa dall’identità di genere all’orientamento sessuale, dall’etnia alla disabilità e così via. Eppure la paura della cancel culture ne ha fatti notare solamente alcuni (come quello religioso). Ma che cosa sono il linguaggio inclusivo e la cancel culture, protagonisti di questa attenzione mediatica?
Vera Gheno: “Linguaggio inclusivo? Meglio parlare di linguaggio ampio”
Vera Gheno, sociolinguista e autrice italiana specializzata in comunicazione digitale, commenta: «Per quanto riguarda il “linguaggio inclusivo”, direi che è un linguaggio che tenta di accogliere e non discriminare le diversità. Anche se aggiungo che molte persone ormai preferiscono parlare di “linguaggio ampio” perché “inclusivo” sottintende che ci sia chi include e chi viene incluso, e non rimuove quindi l’idea che la nostra società sia fatta di “normali” e di “diversi” invece che di diversità che dovrebbero imparare a convivere reciprocamente».
“A lamentarsi di cancel culture lo fa chi detiene il potere mediatico”
Esiste davvero il rischio di una cultura della cancellazione, di una censura quando si cerca di rendere il linguaggio ampio? «Senz’altro – prosegue Gheno – anche le migliori intenzioni possono degenerare in fanatismi, se si è superficiali e non si studia a dovere. Però è interessante che la maggior parte delle persone che si lamentano di cancel culture lo fa in tv, radio e paginate di giornale: cioè sono persone che detengono il potere mediatico, eppure, quasi inconsapevoli di tale potere. Sono quelle che gridano alla censura, laddove le diversità, spesso marginalizzate, sovente non hanno nemmeno accesso ai media».
Un rischio messo in luce, quindi, da chi non subisce alcun tipo di silenziamento o marginalizzazione. D’altra parte, invece, chi trarrebbe beneficio da un linguaggio più ampio è proprio chi, a oggi, è meno presente nei canali di comunicazione.
La soluzione? Relativizzare i nostri punti di vista
C’è una via d’uscita? Secondo Vera Gheno sì: «A mio avviso, cercare di trovare soluzioni linguistiche che tengano conto delle tante sensibilità diverse presenti al mondo non è assolutamente censura. Non è possibile che una parte della società si arroghi il diritto di offendere le altre “perché si è sempre fatto così”. Occorre che quella parte lì si renda conto di detenere non l’unico punto di vista possibile, ma solo uno tra i tanti possibili. Occorre che impariamo collettivamente a relativizzare i nostri punti di vista».