Home Politics Caporalato di Stato a Fincantieri: il maxi processo di Gorizia su appalti e Agenzie del Lavoro (aspettando il Recovery Plan)

Caporalato di Stato a Fincantieri: il maxi processo di Gorizia su appalti e Agenzie del Lavoro (aspettando il Recovery Plan)

Fincantieri

Sfruttamento e ricatti nei subappalti. Ora la data del maxi processo c’è: il 23 settembre si parte in tribunale a Gorizia. Ma a colpire, questa volta, sono imputati e nomi d’eccellenza e il contesto di sottofondo: non l’agricoltura con i suoi campi e caporali sotto il sole cocente d’estate. Non la logistica degli scontri fra multinazionali, padroncini delle coop e operai. Ma gli appalti di Fincantieri nel produttivo nord-est. A Monfalcone, nel distretto portuale e della nautica.

Nel mirino la società Pad Carpenterie che reclutavano manodopera di nazionalità bengalese assunta dalle agenzie di lavoro interinale Quanta s.p.a., Feres Agenzia per il Lavoro s.p.a. ed ALMA s.p.a. Obiettivo? Impiegarli nella cantieristica monfalconese di una delle prime cinque di aziende di Stato sottoponendoli a condizioni di sfruttamento ed approfittamento dello stato di bisogno che per i lavoratori immigrati significa due cose: sopravvivenza e permesso di soggiorno. Nelle carte dei magistrati, nel rinvio a giudizio e nella costituzione di parte civile da parte del sindacato di base Slai Prol Cobas compaiono in diverse occasioni violenze e minacce.

Caporalato di Stato a Fincantieri: il sistema sotto accusa

Parti di stipendio – dai 150 euro ai 500 – che mensilmente vengono fatti restituire illecitamente, retribuzioni ridicole attraverso il sistema della cosiddetta “paga globale”: una paga oraria fissa inferiore – spesso di molto – al minimo contrattuale e senza riconoscimento dei vari benefit previsti dai contratti e con il numero di ore stabilito unilateralmente.

Nel ruolo dei caporali altri cittadini bengalesi assoldati con la funzione di tenere a bada i connazionali. Che per esempio dovevano pagare tra 700 e i 1000 euro solo per poter essere segnalati ed assunti da una delle tre società di lavoro interinale citate che a quel punto avviavano il lavoro presso la PAD Carpenterie, in qualità di capocantiere. Cinquanta euro al mese invece per poter affittare gli armadietti negli spogliatoi.

Chi si ribella? Ci sono casi documentati dal 2018 in poi di immediata riduzione dell’orario di lavoro oppure licenziamento in tronco, mancato rinnovo del contratto di lavoro a tempo determinato. Fino alle violenze: percosse, calci e pugni, costringevano i bengalesi a corrispondere le cifre mancanti.

È l’indotto di Fincantieri. Non coinvolta direttamente nel processo – anche se ci sono dei precedenti su Marghera e altrove – ma comunque vive e prospera anche grazie a ciò che emerge dalla carte. Che raccontano la quotidianità dello sfruttamento su uno dei distretti industriali più importanti della penisola. Sotto lo sguardo vigile del management del colosso pubblico con 230 anni di storia e più di 7.000 navi costruite, controllato Cassa Depositi e Prestiti, e del Presidente di Regione Massimiliano Fedriga. Sempre pronti a tutelare occupazione, pil e produzione industriale vocata all’export sul territorio del Friuli Venezia-Giulia.

Caporalato, Fincantieri e la partita del Recovery Plan italiano

Ci sono anche loro nella grande partita del Recovery Plan italiano. L’amministratore delegato di Fincantieri, Giuseppe Bono, era stato chiaro in audizione alla Commissione Trasporti delle Camera, su cosa il gruppo si attendesse dal Pnrr italiano: logistica, intermodalità, infrastrutture di collegamento, sviluppo della capacità portuale sfruttando la posizione italiana nel Mediterraneo e la conformazione stretta e lunga della pensiola che affaccia sul mondo. Se il governo abbia recepito tutte le sollecitazioni è presto per dirlo.

Ma è guardando agli allegati e alle schede tecniche del Recovery inviato, e approvato, a Bruxelles che si capisce come la classe politica non sia stata insensibile. Solo pescando a casa da alcuni capitoli e missioni: il rinnovo della flotta navale mediterranea con unità navali a combustibile pulito in ottica green e di riconversione ambientale costa 520 milioni di euro. Altri 80 per il rinnovo della flotta navale e nello Stretto di Messina per ridurre le emissioni in linea con standard ecologici moderni.

Sull’aumento della capacità portuale stimato in 1,5 milioni di metri quadrati con il 31% delle risorse per il sud Italia, c’è però un progetto-faro nel “bianco” e produttivo triveneto: è il porto di Trieste, dove si intende potenziare la piattaforma logistica con lo sviluppo dei collegamenti back-port, con l’ampliamento delle infrastrutture comuni per lo sviluppo della “Nuova Zona Franca” del porto con accordi strategici con i maggiori operatori europei per rafforzare la proiezione internazionale del capoluogo a livello internazionale.

“In particolare sono previsti lavori propedeutici all’insediamento delle attività logistiche e industriali nell’area di Noghere (anche in vista dell’integrazione con il terminal portuale di Noghere in corso di realizzazione, progetto di realizzazione della banchina parziale del terminal di Noghere), compreso il dragaggio del servizio canale e collegamento stradale, e l’ammodernamento infrastrutturale e funzionale del terminal container del Molo VII nel Porto di Trieste”.

Altri capitoli ancora sono sullo “sviluppo dell’accessibilità marittima e della resilienza delle infrastrutture portuali ai cambiamenti climatici”. Con l’obiettivo di migliorare l’accessibilità marittima attraverso rafforzamento e consolidamento su dighe, moli e banchine, anche per consentire l’adeguamento al crescente tonnellaggio delle navi. Anche la cosiddetta “Blue Economy” vuole la sua parte dei fondi europei. E tutto fa brodo.

Rimane la domanda: riuscirà l’Italia a vincere con la forza della “resilienza” la partita dei cambiamenti climatici e dell’economia del futuro, senza sfruttare bengalesi nei cantieri che sono il fiore all’occhiello del Paese. Ai posteri – e al processo – l’ardua sentenza.