Non esistono più i feudi politici di una volta. Anche il secondo turno delle amministrative 2022 conferma la tendenza alla dissoluzione delle certezze politica italiana. C’erano una volta il Veneto “bianco” e la Toscana “rossa”. Se il retaggio cattolico è ancora fortemente radicato in Damiano Tommasi, candidato del campo largo di centrosinistra che ha espugnato Verona, storico feudo del centrodestra; lo scolorimento della Toscana, un tempo roccaforte della sinistra, è ormai cosa fatta. Con la caduta di Lucca, di 10 capoluoghi della regione ben 7 sono governati dal centrodestra. Ennesima riprova che nel nostro paese non esistono più le subculture.
Verona fatale al centrodestra come nel 2002
I riflettori di questa tornata sono giustamente puntati su Verona: la vittoria di Damiano Tommasi ha dell’incredibile. Da quando nel 1993 l’elezione del sindaco è diventata diretta, la città di Romeo e Giulietta ha avuto solamente un primo cittadino espressione del centrosinistra. Esattamente vent’anni fa.
Il 10 giugno 2002 Paolo Zanotto, figlio dell’ex sindaco democristiano Giorgio, vinse al ballottaggio su Pierluigi Bolla. Il candidato, espressione de La Margherita e dei Ds, non riuscì a farsi rieleggere nel 2007, quando venne battuto da Flavio Tosi, che è risultato decisivo col suo non allineamento per la caduta del centrodestra nel ballottaggio di domenica scorsa. Dopo vent’anni Verona non è più una roccaforte del centrodestra.
Toscana non più rossa
Al clamore di Verona fa da contraltare la virata sempre più netta della Toscana. La regione si risveglia sempre meno rossa: 7 dei 10 capoluoghi di provincia sono governati da sindaci espressione del centrodestra. L’ultima città a cadere è Lucca, conquistata da Mario Pardini. Vittoria al fotofinsh per il candidato del centrodestra – con l’appoggio anche di CasaPound – che ottiene la vittoria per una manciata di voti: 51 a 49, con circa 350 voti di scarto.
Tanto basta per decretare l’incremento del vantaggio del centrodestra a due province. La Toscana che nel 2025 tornerà al voto è, come nel caso temuto e poi non avveratosi dell’Emilia nel 2020, una regione un tempo simbolo di una subcultura ora è contesa. Il centrosinistra governa solo in 3 città: Firenze con Dario, Livorno con Luca Salvetti e Prato con Matteo Biffoni. Il centrodestra dilaga con Alessandro Ghinelli (Arezzo), Antonfrancesco Vivarelli Colonna (Grosseto), Michele Conti (Pisa), Alessandro Tomasi (Pistoia), Francesco Persiani (Massa), Luigi Mossi (Siena). A cui si è aggiunto Pardini a Lucca.
Ribaltone a Catanzaro e la fine della Stalingrado d’Italia
Nella notte tra domenica e lunedì 27 giugno le soprese sono state tante. Insieme ad una certezza sconvolgente: la Stalingrado d’Italia non esiste più. Per la seconda volta – consecutiva – nella storia Sesto San Giovanni non è più appannaggio della sinistra. Il sindaco uscente Roberto Di Stefano è riuscito a farsi rieleggere, in una città che ormai fa notizia più per la questione stadio del Milan che per la sua connotazione politica.
Alla certezza di una fine, risponde un nuovo inizio. Catanzaro diventa di sinistra per la seconda volta nella storia dal Dopoguerra. La vittoria di Nicola Fiorita rappresenta un’autentica sorpresa. Arriva con un ribaltone dopo che nel primo turno l’avversario Valerio Di Donato era in vantaggio di 13 punti. Ma soprattutto arriva nel capoluogo che nella storia aveva conosciuto solo una giunta di centrosinistra: quella di Roberto Scanagatti nel 2012.
Il concetto di subcultura
In Italia il concetto di “subcultura politica” fu introdotto per la prima volta negli anni Sessanta dai ricercatori dell’Istituto Cattaneo che, per tentare di spiegare il comportamento elettorale degli italiani, divisero il Paese in sei zone scoprendo che due di queste erano politicamente schierate: il Triveneto “bianco” e il centro-nord “rosso”, per l’appunto. Entrambe caratterizzate da forme di solidarietà di tipo localistico (parrocchie e case del popolo, per tornare al cliché di cui sopra) e da reti istituzionali facenti direttamente capo ai due grandi partiti di massa.
Una sorta di “feudalizzazione” che affonda le proprie radici nella seconda metà dell’Ottocento ma che entra a pieno titolo nell’immaginario collettivo solo negli anni della Prima Repubblica. Anni in cui però delle “roccaforti” elettorali, magari di dimensioni più ridotte, le avevano più o meno tutti i partiti dell’arco parlamentare. Il Partito Repubblicano Italiano (Pri) nel litorale toscano e in Sicilia occidentale; il Partito Socialista col quartier generale di Milano; il Movimento Sociale nelle città del Mezzogiorno: Napoli, Reggio e Catania. Discorso analogo si può fare per il Partito Liberale Italiano in Piemonte.
Una nuova cartina politica
Tutti discorsi e rappresentazioni che da almeno 25 anni non hanno più alcun senso di esistere. L’erosione della matrice ideologica tradizionale, uscita malconcia dal terribile uno-due infertole dalla fine della Guerra Fredda e dalle inchieste di Mani Pulite. Poi l’emergere di nuove forme di civismo slegate dalla comunità locale hanno eliminato dalla cartina politica alcune specificità. La Stalingrado d’Italia e il Mezzogiorno destrorso sono roccaforti che vanno evaporando. Come la Brianza imprenditoriale non più legata ai partiti più sensibili al mondo industriale – la sconfitta del berlusconiano Dario Allevi a Monza non sorprende più di tanto; così come il passaggio di Piacenza, la “città nera dell’Emilia”, al centrosinistra. Le subculture in Italia stanno sparendo e al momento non sembrano trovare sostituti.