Elsa Fornero non ha dubbi: un Paese che non offre opportunità ai suoi giovani è destinato al declino e al fallimento. L’economista e già Ministro del Lavoro del governo Monti, parlando con True-News.it, ragiona sull’annoso problema dei cervelli in fuga.
L’Italia è un Paese di giovani laureati “svantaggiati”. Non a caso, per il 70% degli occupati freschi di corona d’alloro la fuga all’estero sembra essere più una necessità che una scelta. Un biglietto di sola andata per stipendi più alti e contratti stabili. Secondo l’ultimo rapporto di AlmaLaurea, infatti, sette neodottori su dieci non vogliono tornare in Italia per lavorare. Mentre uno su tre dice no grazie a contratti da 1250 euro al mese. Preferendo lasciare affetti e città per percepire mediamente 2174 euro mensili netti al di fuori dei confini nazionali, contro i 1393 offerti nel nostro Paese. Mille euro in più in busta paga che fanno la differenza, dunque, contribuendo all’esodo di cervelli verso migliori offerte di lavoro all’estero. Su questo e altri temi Fornero ha discusso con la nostra testata.
Professoressa, secondo il Rapporto 2024 di AlmaLaurea sulla condizione occupazionale dei laureati, sette laureati emigrati su dieci non vogliono tornare in Italia per lavorare. Un dato allarmante per il futuro del nostro Paese…
Quando un Paese non offre opportunità ai giovani, significa che sta fallendo. La cosiddetta fuga di cervelli è un segno palese del declino che l’Italia sta subendo. Anche se attualmente la nostra economia non sembrerebbe andare male, il sistema economico non deve essere misurato sul breve termine. Quello che conta infatti è il medio-lungo periodo, proprio quello in cui, purtroppo, si riscontra l’evidente e mortificante esodo di giovani espatriati all’estero per trovare lavoro. La reale preoccupazione però non è che i giovani vadano all’estero, ma che essi non vedano ragioni per tornare in Italia. Il che costituisce una doppia perdita per il nostro Paese. Ma si tratta di un fenomeno che può e deve essere contrastato.
Ai giovani non resta altro che fuggire dall’Italia? O, secondo lei, il nostro Paese ha ancora modo di contenere la fuga di cervelli?
Sono convinta che si debba ancora investire molto nell’economia della conoscenza. Incentivando le politiche del dinamismo, della crescita, dell’opportunità. Politiche che premiano il merito e non le conoscenze o le lobby. Solo intraprendendo questa strada, che è quella della crescita economica inclusiva di medio-lungo periodo nei settori chiave a produttività elevata, si invertirà l’attuale trend di declino. Bisogna porsi l’obiettivo di dare opportunità concrete ai giovani, facendo intravedere loro le possibilità di crescita professionale e di reddito anche in Italia e non solo altrove.
Ma attualmente quali sono le aspettative occupazionali per un giovane che resta in Italia?
Non si deve pensare che l’orizzonte sia tutto nero. In qualche settore le opportunità ci sono, ma sono troppo pochi. Quello che più preoccupa i giovani italiani è una mancanza di crescita professionale. C’è una diffusa sensazione di compressione della progressione di carriera. Questo forse è anche dovuto al fatto che le imprese italiane sono in larga misura piccole o piccolissime, molto legate alla figura dell’imprenditore che spesso coincide col capo famiglia. Realtà che fanno ancora fatica ad allinearsi su importanti temi sociali, ambientali e di governance, sentiti come fondamentali dai giovani d’oggi.
Lei ha parlato dell’Italia come un Paese di giovani svantaggiati, perché?
Oggi persino la Grecia ci sta superando per quanto riguarda le prospettive occupazionali dei giovani. In Italia gli under 30 sono svantaggiati innanzitutto nel numero. Sono una frazione della popolazione totale, di conseguenza hanno minor perso politico rispetto alla fascia più anziana, in costante aumento. Inoltre, siamo asimmetrici: i nostri giovani emigrano all’estero, ma difficilmente gli under 30 stranieri vengono in Italia a trovare lavoro. Questa mancanza di simmetria sottolinea quanto l’Italia sia sbilanciata sulle classi d’età più giovani, che hanno meno potere, meno patrimonio e meno risorse. Se questo non è uno svantaggio…
Tornando al rapporto Almalaurea, un altro dato che emerge è che un laureato su tre rifiuterebbe uno stipendio di 1250 euro al mese. Secondo lei è una retribuzione mediamente dignitosa per un giovane alle prime armi o i neodottori hanno ragione ad opporvisi?
Di per sé è un dato simbolo, che può assumere diversi significati a seconda dei contesti. Se alla retribuzione di questi 1250 euro mensili viene offerto un contorno di benefici aggiuntivi, come la possibilità di usare forme di welfare familiare o di frequentare corsi di aggiornamento professionale, allora 1250 euro possono essere anche accettabili. Molto però dipende anche da dove si lavora o dalla distanza del luogo di lavoro rispettò alla città. Ci sono dunque tanti aspetti che possono rendere questo stipendio quasi appetibile e altri invece che lo rendono un salario decisamente povero.
Il motivo principale della fuga di cervelli è proprio lo stipendio: all’estero è oltre il 56% più alto che in Italia. Si tratta mediamente di 2174 euro mensili netti, rispetto ai 1393 euro percepiti nel nostro Paese. Perchè questo divario?
Il nostro problema è che non cresciamo. L’Italia cresce molto meno degli altri Paesi da ormai venticinque anni. Ciò dipende principalmente da due elementi: l’aumento dell’occupazione, che oggi si sta un po’ risvegliando, e l’incremento della produttività, ovvero quello che sorregge i salari e che più manca nel nostro Paese. Il più grande problema dell’Italia è la presenza di troppe poche imprese altamente produttive nei settori ad alto valore aggiunto. Una mancanza che lede lo sviluppo.
Ma la mancanza di stipendi elevati contribuisce al mismatch tra la richiesta di lavoratori da parte delle imprese e la mancanza di figure adeguate. È anche un problema di formazione. Come colmare il divario tra formazione e mondo del lavoro?
È un lungo discorso che richiede di lavorare molto sull’apprendistato. Serve un dialogo profondo tra il mondo della formazione a tutti i livelli e quello dell’occupazione. In Italia persiste il retaggio di una diffidenza reciproca. Ad esempio, le imprese guardano gli stage come qualcosa che fa perdere loro tempo o, per contro, come un lavoro da sfruttare e sottopagare. La scuola, dal canto suo, continua ad avere un pregiudizio sull’ingresso dei giovani nella sfera lavorativa. È un difetto di lunga data del nostro Paese, anche se in realtà certe regioni mostrano una buona interazione tra i due settori nell’ambito delle politiche attive.
Quali sono, dunque, soluzioni realmente efficaci da adottare?
Io credo che l’apprendistato sia ancora uno strumento molto valido. E penso che lo siano anche gli stage formativi, se ben controllati e se non rappresentino sfruttamento nascosto del lavoro giovanile. Il tirocinio di per sé è buono e non deve essere demonizzato. La differenza sta nell’uso che se ne fa, che può renderlo pessimo e inutile. Le imprese devono fare in modo che queste prime opportunità di inserimento lavorativo siano per i giovani delle forme di realizzazione di se stessi e delle proprie capacità. Instaurando un dialogo che demolisca i pregiudizi ideologici sul lavoro, diffondendo invece la mentalità secondo cui esso è il vero mezzo per raggiungere l’indipendenza economica, dunque la libertà.
Cosa dice ai giovani d’oggi che andranno in pensione a 70 anni?
Dico che c’è molta enfasi su alcuni titoli di giornale che non rappresentano la complessità del problema. Il pensionamento dei giovani potrà avvenire anche prima dei 70 anni, con una pensione più che dignitosa, ma solo se avranno una buona carriera. Quando saremo nel pieno del sistema contributivo, la cui transizione iniziata nel lontano 1995 non è ancora finita, l’età di pensionamento sarà flessibile. E chi ha avuto una buona vita di lavoro non dovrà aspettare i 70 anni. In caso contrario, spetterà allo Stato coprire i periodi di vuoto attraverso una tassazione generale progressiva. Oggi è necessario lavorare affinché i giovani abbiano più opportunità occupazionali qui in Italia, insistendo sulla buona e continuativa performance lavorativa. Bisogna fare in modo che i neolaureati entrino nel mondo del lavoro con modalità meno precarie, con retribuzioni migliori e maggiori possibilità di carriera. Quando l’avremo fatto concretamente, i giovani sceglieranno di restare o di tornare nel nostro Paese.
Ad oggi consiglierebbe ai giovani di non trasferirsi all’estero e di restare in Italia?
Ai giovani d’oggi non direi mai di non andare all’estero. Piuttosto li esorterei a non dimenticarsi dell’Italia e di mantenere aperta la possibilità di un loro ritorno in un Paese che sarà in grado di accoglierli meglio.