di Francesco Floris
“Non possiamo essere il partito del potere”. Sarà pure come dice Enrico Letta durante il discorso domenicale che lo incorona nuovo segretario del Partito democratico di fatto all’unanimità. Avrà di certo ragione lui, ma intanto la “chiamata” per il docente di Sciences Po ed ex premier per guidare i dem allo sbando è arrivata proprio dal “potere”. Quello vero. Tre telefonate, sembrerebbe dai rumors di corridoio romani, ricevute nella settimana post dimissioni di Nicola Zingaretti. La prima di Mario Draghi. La seconda di Sergio Mattarella. E infine quella cruciale di Ursula Von der Leyen.
Tanto è bastato al nipote di Gianni per prendere una decisione che a giudicare dalle interviste degli ultimi anni, e anche mesi, sembrava davvero remota. Tre telefonate, poi la “passerella” venerdì sera a Propaganda Live su La7 (profumo di investitura di Urbano Cairo?) e infine domenica 14 marzo l’acclamazione, senza discussione, di un Pd che decide di violare la più sacra delle proprie regole, sin da quel fatidico 2007 targato Walter Veltroni: quella delle primarie, dell’investitura democratica per il segretario.
In Europa del resto c’è la convinzione, forse non del tutto a torto, che senza il Pd – questo Pd, lo stesso che in patria suscita i mal di pancia anche di elettori e simpatizzanti – il governo Draghi crollerebbe, a prescindere dai numeri in Parlamento. “Lo stare al governo a tutti i costi”, quella che ormai molti dirigenti dem rappresentano come una condanna politica (lo ha detto l’ex ministro Provenzano, ma è sentimento largamente condiviso) a Bruxelles è invece visto come una garanzia di “stabilità”.
Così si ottiene il migliore dei circoli viziosi: Draghi viene chiamato per garantire la stabilità di governo da spendersi sui mercati e far funzionare campagna vaccinale e Recovery Plan; il Pd deve garantire la stabilità del governo Draghi; ed Enrico Letta serve a mantenere la stabilità del Pd. Un paese ad alto rischio sismico, continuamente alla ricerca di stabilità.