Chi pensa che la Cina sia governata, con un semplice schiocco di dita, dal solo Xi Jinping, si sbaglia di grosso. Xi ricopre il massimo e più riconoscibile ruolo all’interno dell’organigramma politico cinese: quello di presidente. Al quale si sommano le cariche, altrettanto importanti, di segretario del Partito Comunista Cinese (Pcc) e di presidente della Commissione Militare della Repubblica Popolare Cinese.
Insomma, Xi Jinping è uno e trino: guida il Partito-Stato che dirige il Paese, ha l’ultima parola nelle questioni militari e, ovviamente, è il capo dello Stato.
Cina: Xi non governa da solo ed anche le dinamiche del partito sono complesse
Molti osservatori occidentali ritengono, a torto, che il fenomeno Cina si possa liquidare semplicemente considerando il Dragone un parco giochi controllato da un singolo uomo al comando e in balia dei suoi umori, oppure una sorta di industria amministrata dal Pcc. Ma, così come il signor Xi non governa da solo, il partito risponde a dinamiche piuttosto complesse. Già, perché nonostante il Pcc ami descriversi verso l’esterno come un blocco unico e granitico, dove tutti i suoi membri – circa 91 milioni, all’incirca il 7% della popolazione cinese – condividono la medesima linea politica, anche in seno a questo partito esistono correnti e divisioni.
Le basi del Pcc: le teoriche marxiste adattate all’attuale contesto
Per capire come funziona il motore politico della Cina bisogna partire da un assunto basilare: il Pcc ha adattato le teorie marxiste del passato al contesto cinese attuale. Il risultato è il cosiddetto “socialismo con caratteristiche cinesi”, e cioè un modello ideologico che ha ripreso e rielaborato vari dettami marxisti. Anche se i rappresentati del Pcc condividono questo minimo comune denominatore, dentro al partito esiste un dibattito che – lo si è visto nel corso della storia – fa emergere modi differenti di approcciarsi ai problemi del presente.
Partito cinese: populisti ed elitisti
Da questo punto di vista, possiamo sintetizzare tutto in due macro divisioni interne. La “spaccatura” numero uno, se così può essere definita, è di natura prettamente ideologica e distingue i “populisti” dagli “elitisti”. I primi chiedono una maggiore presenza dello Stato e un conseguente minor ruolo del mercato; gli elitisti, al contrario, sono favorevoli alla graduale apertura cinese intrapresa grazie alle riforme di mercato varate dall’allora leader Deng Xiaoping alla fine degli anni ’70. I populisti, tra l’altro, includono i neomaoisti, i fautori di una corrente marxista ortodossa, nostalgici del passato e dell’epoca maoista, quando lo Stato garantiva una sostanziale (e utopica) uguaglianza e un’assistenza a 360 gradi. Col senno di poi, sappiamo che ai tempi di Mao Zedong la Cina ha attraversato momenti piuttosto duri.
La nuova Cina ha creato vincitori e vinti
Il punto è che, nella nuova Cina aperta ai mercati e guardiana della globalizzazione, non tutti sono riusciti a realizzarsi. La conseguenza è che si sono creati vincitori e vinti, con questi ultimi che sperano di trovare rifugio dalle angherie del presente in un passato lontano e nebuloso. Il Pcc, in generale, guarda con sospetto l’intera galassia che abbraccia la Nuova Sinistra cinese, talvolta eccessivamente critica nei confronti delle citate riforme economiche; le stesse che hanno trasformato la Cina in una potenza globale.
La seconda spaccatura nel Pcc: non tutti sostengono la Nuova Via della Seta
La seconda “spaccatura” interna al Pcc si gioca sulla traiettoria politico-economica indicata da Xi Jinping. E così da un lato troviamo i sostenitori della Belt and Road Initiative (BRI), la Nuova Via della Seta presentata dal presidente cinese come progetto internazionale capace di aprire ulteriormente il Paese al resto del mondo, rafforzando l’economia nazionale e la diplomazia; dall’altro ecco chi considera la BRI un lusso evitabile, nonché uno spreco di denaro che il governo avrebbe potuto impiegare in altri modi, magari nella formulazione di misure assistenziali in favore della popolazione cinese.
Le diverse correnti all’interno del Partito comunista
Oltre alle macro distinzioni che caratterizzano lo scenario politico cinese troviamo varie correnti generate da personalità di spicco. Correnti, si badi bene, capaci in tutto e per tutto di influenzare il processo decisionale del Paese. Giusto per fare un esempio, accanto alla corrente di Xi Jinping troverebbero spazio le correnti dei due ex presidenti cinesi Jiang Zeming e Hu Jintao.
Wang Huning, l’eminenza grigia del comunismo cinese
E ancora: l’intera epopea ideologica brandita da Xi in persona proviene da un’eminenza grigia poco spesso analizzata a dovere. Si tratta di Wang Huning, altro tassello chiave del sistema politico della Repubblica Popolare Cinese, conosciuto come una sorta di Machiavelli cinese. È stato definito “the brain behind the throne”, ovvero il “cervello dietro al trono”, ed è uno dei sette membri del Comitato permanente del Politburo, l’organo che di fatto governa la Cina (l’unico a non aver mai diretto un comune o una provincia come segretario del partito).
Wang è semplicemente l’architetto del pensiero politico che ha plasmato l’immagine e il retroterra culturale del Dragone che conosciamo a livello internazionale, dalla teoria delle tre rappresentanze di Jiang Zemin alla “visione di sviluppo scientifica” di Hu Jintao, fino al “Sogno cinese” di Xi Jinping. Sua anche l’etichetta del concetto di “neo autoritarismo” in salsa cinese, ossia considerare la stabilità politica alla base dello sviluppo nazionale (democrazia e libertà varie arriveranno in un secondo momento, ammesso che ci siano le condizioni giuste per il loro insediamento). Xi, dunque, sarà pure il volto della Cina. Ma alle sue spalle agiscono correnti, persone e fazioni che contribuiscono a muovere i fili della Repubblica Popolare.