Il Gruppo intergovernativo delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (IPCC), la più grande autorità mondiale sul clima, ha recentemente presentato la parte del sesto rapporto che si concentra sull’impatto del climate change sulle persone e sugli ecosistemi. Lo studio mette nero su bianco la crisi in corso e i suoi possibili sviluppi futuri. Quali sono le previsioni? E come si inquadra questo report nello studio delle questioni ambientali? Lo abbiamo chiesto a Stefano Caserini, docente di Mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano.
La sezione del sesto report da poco pubblicata è stata elaborata dal working group II dell’IPCC che si occupa dei danni del cambiamento climatico. Come si colloca nel lavoro complessivo dell’IPCC?
L’IPCC effettua una revisione della letteratura scientifica. È un percorso iniziato nel 1990 con il primo rapporto sul clima, che è stato la base scientifica della Convenzione sul clima firmata a Rio nel 1992 (UNFCCC). Ormai la scienza del clima è cresciuta moltissimo, così come quella che si occupa degli impatti e dell’adattamento. Questi rapporti hanno solo il problema di contenere il numero di pagine, perché partono da decine di migliaia di articoli scientifici e quindi la revisione è sempre più difficile. È un lavoro di altissima qualità e si vede anche con questo sesto rapporto. Le incertezze si riducono e il quadro è sempre più completo.
Com’è possibile far risalire un evento estremo al cambiamento climatico? Ci sono degli strumenti di previsione a cui ci possiamo affidare oggi?
Ci sono alcuni studi specifici chiamati di attribution, cioè di attribuzione. Sono molto complessi e servono per cercare di individuare le probabilità di un evento estremo partendo da dati climatici al contorno. Questa una delle metodologie ma ce ne sono altre. La scienza dell’attribuzione è cresciuta molto negli ultimi dieci anni e il sesto report dell’IPCC lo dimostra.
All’interno del report si parla anche di maladaptation. Che cos’è? In che modo può incidere sulle nostre vite e sull’ambiente?
Per maladaptation si intende l’inefficacia delle azioni di adattamento al cambiamento climatico. Noi sappiamo che bisogna portare avanti sia la mitigazione del cambiamento climatico (ossia la riduzione delle cause) sia l’adattamento, cioè la gestione degli impatti certi. Il riscaldamento globale c’è già e l’aumento delle temperature di mezzo grado è inevitabile. Maladaptation è quando le azioni sono fatte in modo non pianificato e non sufficiente ad affrontare la questione ambientale.
Negli ultimi studi sul clima c’è un’insistenza sempre più forte sulla multidisciplinarità. Come la vedi dal punto di vista scientifico? Può essere la chiave non solo per comprendere ma anche per affrontare il cambiamento climatico?
La multidisciplinarità è sicuramente fondamentale, anche nel settore in cui lavoro io cioè la mitigazione del cambiamento climatico. Per la velocità con cui le misure utili ad affrontare la crisi climatica devono essere introdotte è necessario vincere delle barriere che non sono solo tecnologiche o economiche, ma istituzionali e culturali. Avere un approccio multidisciplinare significa non pensare che la lotta al cambiamento climatico sia solo un tema tecnologico, ma coinvolgere anche le soft sciences. Ne parlo anche nel mio ultimo libro Sex and the climate.
Come si relazionano i risultati presenti nel report con il lavoro della COP26 tenutasi pochi mesi fa?
Sostanzialmente la COP26 ha cercato di alzare l’asticella dell’impegno delle varie nazioni sulle questioni climatiche e questo rapporto ne spiega le motivazioni.
Un’ultima domanda: sempre per una questione di divulgazione e di coinvolgimento della società civile nelle questioni ambientali, quanto è importante rendere note – come fa questo report – le conseguenze del cambiamento climatico sulle persone e sugli ecosistemi? Credi ci sia una difficoltà comunicativa relativa ai dati scientifici?
Il cambiamento climatico è una catastrofe al rallentatore. Arriva da lontano e ci accompagnerà ancora per decenni se non secoli. È importante che la comunicazione sul tema sia costante e che sia anche formazione. È difficile comunicare i contenuti di questa sezione del report perché si parla degli impatti. Quando poi arriverà la terza componente, sulle soluzioni, probabilmente ci sarà una maggiore copertura mediatica. Le persone vogliono sentire soprattutto le soluzioni, perché esistono e perché ci permettono di agire concretamente in questo ambito. Parlare di cambiamento climatico generando disperazione non è funzionale.