Ci vediamo al prossimo machete in piazza, caro ragazzo. A Milano c’è una emergenza sicurezza ogni volta che decidiamo – noi giornalisti – che ci sia. Peccato che non esista una emergenza sicurezza, che i reati non siano aumentati. Ma esiste una emergenza sociale legata ai giovani che continuiamo a non interpretare, a non ascoltare, a non voler affrontare neppure lontanamente.
Giovani, l’emergenza sociale che non si vuole vedere
Sembriamo i nostri genitori con la loro giovinezza nel Sessantotto, che ci hanno fracassato le palle per un ventennio dicendo che ai loro tempi c’erano sogni, bella musica, grande politica, grande ribellione, grande giornalismo, grandi sacrifici per grandi risultati. Oggi, a conti fatti, il grande giornalismo dei tempi è morto proprio per mano loro, la grande ribellione è andare in Toscana invece che in Liguria a farsi i week end, la grande politica fa rimpiangere la primissima repubblica che loro contestavano e i sogni li hanno avuti a spese nostre. Grandi sacrifici e contratti a tempo indeterminato.
Quel grido di dolore dei giovani incompresi di Milano
Vogliamo essere la stessa cosa? Vogliamo chiudere gli occhi di fronte a ragazzi che non usano il nostro linguaggio, che non usano l’informazione come la usiamo noi, che non leggono la politica e non ne sono interessati ma che sono molto radicali sui diritti, liberali in economia e poco dogmatici, fragili nei loro rapporti ma arrabbiati, con tanta voglia di menare le mani dopo essere vissuti per un anno e mezzo chiusi. Loro chiusi, senza scuola. Loro chiusi, senza poter fare all’amore con i fidanzati e le fidanzate. Loro chiusi, e colpevolizzati perché non sono abbastanza responsabili, perché diffondono il contagio, perché si assembrano. Loro chiusi, colpevolizzati, repressi, condannati all’asocialità. Di una cosa sono certo, finché non apriamo gli occhi sui pugni, calci, machete, coltelli, cercando di capire che sono grida di dolore, Milano rimarrà una città vecchia, chiusa, perfettamente conformista.