“Onorevole, stia zitto!” e “Governare con la crisi”. Non sono due frasi estrapolate dalle tante cronache dei due giorni di passione che ha vissuto il Parlamento, ma libri di Giulio Andreotti che consiglio vivamente a chi è interessato alla politica ma non la vive in prima persona. La riflessione che il lettore ne trarrebbe è doppia. Prima di tutto capirebbe che gli eccessi verbali e le furbizie, soprattutto nelle votazioni importanti, erano all’ordine del giorno anche quando sugli scranni parlamentari sedevano i tanto rimpianti padri costituenti; ma anche – e forse soprattutto – che in una democrazia parlamentare matura, durante una legislatura, le crisi di Governo sono un fattore che deve essere messo in conto e che può essere gestito senza particolari ripercussioni negative sull’amministrazione dello Stato. Ma c’è una condizione: ci deve essere una continuità di fondo dell’azione politica dei partiti di maggioranza e dei leader che ambiscono al Governo. Questo vuole dire che non si può cambiare completamente idea sulla società che si propone agli elettori, soprattutto all’interno della stessa legislatura: altrimenti li si disorienta e si crea ancora maggiore sfiducia nei confronti del Governo e del
Parlamento. I partiti della Prima Repubblica governavano con la crisi e mutavano alleanze, ma non cambiavano totalmente abito ideologico, soprattutto all’interno della stessa legislatura. Vi immaginate un leader della Democrazia Cristiana, che dopo avere fatto il pieno di voti nelle parrocchie, di colpo chiede la fiducia al Parlamento proponendo di abolire la sovranità e l’indipendenza della Santa Sede? Non scherziamo.
La forza della coerenza
È una questione di coerenza che, a mio giudizio, vale ancora di più oggi. Non dimentichiamo infatti che, dopo l’esperienza della Prima Repubblica, gli italiani hanno voluto e vissuto circa 20 anni di bipolarismo maggioritario: un sistema che, con il senno del poi, forse aveva dei difetti, ma certamente aveva il dono della
chiarezza nel manifestare agli elettori i valori di una coalizione, piuttosto che dell’altra, prima che andassero alle urne. Questa coerenza è del tutto mancante nel Governo, e soprattutto nel
Movimento 5 Stelle, che esprime il Premier e diversi importanti ministri: basta pensare alla disinvoltura con cui Conte, da orgoglioso avvocato sovranista e populista gialloverde, si è trasformato in aspirante erede di De Gasperi. O al Ministro della Giustizia Bonafede, che, dopo avere firmato alcune delle leggi più giustizialiste della storia repubblicana, era seduto accanto a Conte mentre chiedeva al Parlamento di poter continuare a governare nel nome di valori esattamente opposti. E sulla stessa linea evidentemente continuerà mercoledì prossimo, sempre in Senato, dove – in quella che già si annuncia come una nuova sfida all’Ok Corral –
presenterà la sua relazione annuale sull’amministrazione della nostra Giustizia.
Non credo che il Paese oggi abbia bisogno di una tornata elettorale nel pieno della pandemia: sono però altrettanto convinto che non possa continuare a essere rappresentato da questo Governo, molto indebolito dal voto in Senato, e dal Premier Conte. Il suo estremo trasformismo non gli
impedisce solamente di essere un riferimento politico, ma lo ha reso anche una personalità talmente divisiva da non poter essere rappresentativa dell’unità nazionale in questo drammatico momento sanitario ed economico. Non so quel che accadrà: io da marzo spero in
un Governo guidato da Mario Draghi sostenuto dalla maggior parte delle forze parlamentari, ma giunti a questo punto credo sia un’utopia. Di certo auspico che, per il futuro, gli schieramenti politici tornino a investire sulle idee e sulla coerenza.