Il bicchiere mezzo pieno? L’attivismo delle città e la prosecuzione di quel processo di “multilateralismo climatico” che da anni fa sì che 196 Paesi si trovino insieme “per discutere, trovare accordi compromessi e strutture allo scopo di rendere il pianeta più vivibile”. Quello mezzo vuoto? La distanza fra “principi” e “piani attuativi” e la mancanza di coraggio del Nord del mondo nel compensare i Paesi in via di sviluppo rispetto alla transizione. Una questione di “giustizia climatica e sociale” ma anche di “incentivi negoziali”. Caterina Sarfatti è attenta osservatrice dei negoziati climatici e lo fa da un osservatorio privilegiato: Direttrice del programma Inclusive climate action dell’organizzazione internazionale C40 Cities climate leadership group – la rete delle grandi città del mondo che fornisce supporto per pianificare e implementare interventi contro la crisi climatica. Glasgow e la Cop26? Evita la trappola retorica del “fallimento” o “successo” per definirli invece “un piccolo passo in avanti di fronte a un’enorme scalata che va compiuta in fretta”.
Dottoressa Sarfatti, quindi è impossibile tracciare un bilancio della Cop26?
Partirei dal presupposto che non si può considerare Glasgow come un evento a se stante, da dichiararsi vittorioso o fallimentare. Siamo di fronte al più vasto processo di pace multilaterale oggi esistente, che da anni raduna 196 Paesi, e che permette importanti risultati a livello di politiche internazionali. Il paradosso odierno è che un piccolo passo in avanti, quando sappiamo che servirebbe una clamorosa trasformazione, fa sì che tutti possano dirsi scontenti: sia chi vuole bloccare il processo sia che vuole vedere risultati radicali e concreti. Ciò che invece bisogna tenere presente è che si tratta di un percorso lungo, che a volte accelera e altre rallenta.
La seguiamo sul suo terreno: dove accelera?
La principale vittoria dei negoziati sta nell’aver tenuto in vita l’obiettivo di limitare l’aumento delle temperature globali globali a 1,5 gradi centigradi. Certo, il Presidente della Cop26 ha detto “abbiamo tenuto questo meccanismo in vita ma il cuore che batte è debole” ma va ricordato che dagli Accordi di Parigi che parlavano di stare al di sotto dei 2 gradi, fino al recente G20 i governi nazionali non avevano mai formalizzato l’impegno. È un tassello importante, già oggi un riscaldamento a 1,1-1,2 e gli impatti della crisi climatica si sentono sugli ecosistemi e sulle sofferenze di varie comunità nel mondo.
Per restare dentro la metafora: non tutti accelerano alla stessa maniera. L’Indonesia parla di accordo “non vincolante” sulla deforestazione. I sauditi resistono sulle fossili, Brasile e Australia su carbonio ed emissioni
È vero ma per la prima volta nella storia dei negoziati c’è un riferimento esplicito al bisogno di ridurre il carbone e gli incentivi inefficienti al carbon-fossile, prima di Glasgow non c’era mai stato un riferimento formale. Alcuni Paesi sono riusciti a far inserire la parola “ridurre” al posto “eliminare” ma rimane un risultato notevole. Come dice Frans Timmermans: è oro da 18 carati e non da 24, ma pur sempre oro. Su questo punto vorrei però aggiungere due parole.
Prego…
Il fallimento più grosso di questo appuntamento è la mancanza di coraggio e visione da parte dei Paesi del nord del mondo, Unione europea e Stati Uniti in testa, nel non aver ancora rispettato la promessa del 2009 di stanziare collettivamente fondi per i Paesi più vulnerabili alla crisi climatica e di creare una struttura di finanziamento per le perdite e i danni subiti a causa del cambiamento climatico. È un punto centrale di giustizia sociale per diverse nazioni del continente africano e asiatico ma è soprattutto un tema negoziale: come si può pensare di convincere i cosiddetti Paesi in via di sviluppo, ritrosi a rifiutare certi tipi di politiche praticate per decenni dall’Occidente, se non vengono adeguatamente compensati? Il nord del mondo non lo accetta per evitare di sancire un principio e una responsabilità che potrebbero avere anche altre conseguenze in sede internazionale, ma non si rende conto che così facendo le frecce sono spuntate.
Veniamo allora ai nodi critici. Cosa è mancato?
Tre aspetti. Il primo: gli obiettivi a lungo termine rispondono agli Accordi di Parigi anche in maniera fedele ma sono invece carenti gli obiettivi al 2030, in qualche modo quelli più importanti e impellenti. Non è solo una questione di impegni e principi: la maggior parte dei governi non predisposto piani attuativi. Glasgow ha previsto accordi specifici sulle automobili, il metano, la deforestazione e che sono una novità nel panorama del processo negoziale, Ma per essere realmente efficaci servono delle indicazioni di policy concrete. La buona notizia è che invece di rimandare la discussione fra cinque anni su questo punto si è stabilito che sia in agenda sin dalla prossima Cop27 in Egitto dell’anno prossimo. La non interruzione è uno dei valori aggiunti e il fatto che si svolga in un Paese africano farà sì che anche il tema delle compensazioni fra Paesi sia uno dei punti dirimenti. Certo, la Cop26 ha dimostrato quanto sia importante una leadership credibile del Paese ospitante. La leadership degli UK per esempio che riduce gli aiuti allo sviluppo pochi giorni prima della Cop era spuntata. Ecco, siccome non esiste transizione ecologica possibile che non sia una transizione giusta, equa, inclusiva che riduca le disuguaglianze invece di esacerbare le esistenti, non posso non manifestare un personale timore e seria preoccupazione che la leadership dell’Egitto non sia adeguata a questa sfida.
Parlava di una terza criticità…
Ancora una volta è la differenza sostanziale fra governi nazionali e governi locali.
Si spieghi…
Le grandi città del mondo hanno trovato un accordo già nel 2016, da cinque anni hanno impostato i piani clima sull’aumento delle temperature a un grado e mezzo e nel 2020, in piena pandemia, hanno fatto richiesta ufficiale per eliminare i sussidi al carbon-fossile attraverso la task force sulla ricostruzione promossa da C40. Sono stati i primi fra i politici a farlo. Come del resto a Glasgow ben 1049 rappresentanti delle città nel mondo si sono presentati con l’obiettivo di dimezzare le emissioni già entro il 2030.
Perché questa distanza fra Stati e città?
Da una parte perché la diplomazia tra città e il multilateralismo fra metropoli negli ultimi anni ha avuto una grande spinta. Pur mantenendo la competizione reciproca dal lato investimenti, grandi eventi, flussi turistici, si è sviluppata fra le città una grande capacità cooperativa in grado di prendere impegni e azioni più concrete, rispetto alla lentezza di molti governi, anche nei momenti più duri del multilateralismo climatico, magari per l’ascesa a livello nazionale di leadership durissime e negazioniste.
Dall’altro lato ci sono aspetti pratici: i sindaci sono i primi che rispondono ai bisogni dei cittadini. Quando ci si trova a gestire le conseguenze di un uragano o di una tempesta estrema ogni cinque anni, invece che ogni 50, ci si rende conto che bisogna agire immediatamente. Prendete l’esempio di Houston: una delle principali città del mondo, del nord del mondo, che ha un programma di ricollocazione delle famiglie che abitano in zone non più considerate sicure. Oppure guardate all’esempio del sindaco di Dacca: si sente parlare spesso di “migranti climatici” come di un’eventualità futura, giusto? Bene. Il sindaco della capitale del Bangladesh ogni giorno deve fare i conti con 2mila persone che si spostano verso la città a causa dell’innalzamento delle acque superficiali del mare.