Perché leggere questo articolo: Tanti annunci e poca sostanza nel fondo della Cop28 contro i cambiamenti climatici. Una goccia d’acqua nell’oceano di esigenze. Insomma, non ha così torto Greta Thunberg ad indignarsi…
Greta Thunberg aveva ragione? La prima giornata del Cop28 negli Emirati sembra confermare le tesi dell’attivista svedese. Almeno su un punto: quello che vedrebbe i grandi summit climatici occasioni spot in larga misura inconcludenti. L’apertura della Cop28 con l’approvazione del Fondo Loss and Damage per la compensazione (non si chiamino risarcimenti, ammoniscono gli Usa!) dei Paesi colpiti dal cambiamento climatico e finanziato da quelli più sviluppati è infatti totalmente in chiaroscuro.
Un fondo troppo ridotto?
Il fondo sarà ospitato dalla Banca Mondiale, ma non pare minimamente in grado di sostenere le richieste che imporrà in termini di compensazioni. Per la precisione, per costituire il fondo i Paesi dell’Unione europea si sono impegnati a mettere sul campo 225 milioni di dollari; gli Emirati Arabi Uniti ne aggiungeranno altri 100 e 76 saranno invece quelli che stanzierà il Regno Unito. Altri 17,5 arriveranno dagli Stati Uniti.
Al confronto di queste cifre, spiccano i 130 milioni di euro promessi da Giorgia Meloni per l’Italia nel suo discorso dell’1 dicembre. Comunque, ad ora gli impegni non arrivano al miliardo di euro. Un obolo in confronto alle stime dei costi economici dei disastri climatici, stimati in 580 miliardi di dollari (ogni anno) a partire dal 2030 dalla Banca Mondiale. La stima è ancora più catastrofica se guardiamo ai dati di uno studio dell’Università del Delaware pubblicato questa settimana, secondo il quale il costo del loss and damage pesa per 1500 miliardi di dollari sullo sviluppo globale già in questo 2023.
Il fondo e le richieste di G77 e Banca Mondiale
Il presidente della Banca Mondiale, Ajay Banga, ha dichiarato che nel fondo dovrebbe giocare un ruolo direttivo la rappresentanza del G77. Il G77 è un gruppo di Stati particolarmente colpiti dalla crisi climatica e chiede che il fondo sia aumentato fino a 400 miliardi di dollari. Ad oggi ne sono stati garantiti solo lo 0,5%. Fondi che forse basterebbero a dare un paio di pasti al giorno ai 27 milioni di bambini che il Cop28 ha stimato vivano in condizioni alimentari disagiate a causa della crisi climatica e dei suoi impatti sulle catene di produzione del cibo.
Sottovalutare la risposta all’emergenza climatica rischia di produrre effetti durissimi sia sul fronte ambientale che su quello economico, sociale, umano. Anche perché dimenticare la compensazione economica rischia di far sottovalutare un dato di fatto fondamentale: quello che vede la crisi climatica impattare già oggi, direttamente, anche nelle economia avanzate. Nel 2019 sulla rivista Pnas, tra le principali accademiche in campo economico, gli economisti Matteo Coronese, Klaus Keller, Francesco Lamperti e Andrea Roventini hanno stimato che il valore marginale (ovvero dell’incremento dell’1%) dei danni da catastrofi climatici aumenti ogni anno mediamente di 17,9 milioni di dollari ogni anno nelle aree tropicali e di 46,5 milioni di dollari in quelle temperate.
I costi del disastro climatico
Un tema fondamentale che dà da pensare in un contesto in cui, per l’Emilia-Romagna, la sola bomba d’acqua di maggio ha prodotto – senza contare le impagabili vittime umane – danni per circa 6 miliardi di euro. Destinati tragicamente ad aumentare. Il minore aumento nelle regioni tropicali, ove si concentrano economie in via di sviluppo, mostra uno scenario fondamentale: “la prevalenza di catastrofi naturali devastanti si è estesa oltre le regioni tropicali e misure di adattamento in queste ultime hanno avuto alcuni effetti attenuanti sui danni”, maggiori forse rispetto a quelle delle aree più sviluppate.
Decarbonizzare l’economia italiana ed europea e ridurre gli impatti ambientali, spingendo la mitigazione dei cambiamenti climatici, appare oggi una questione non solo di sviluppo ma anche, in certi casi, di vita o di morte. E i progetti di sviluppo sostenibile devono integrare mitigazione climatica da un lato e tutela geologica e urbanistica del paesaggio dall’altra. In una fase in cui la soglia-limite dell’aumento di 1,5 gradi della temperatura media terrestre rispetto all’era pre-industriale è prossima ad essere superata, secondo l‘Organizzazione Meteorologica Mondiale, portando potenzialmente da qui ai prossimi cinque anni il clima planetario in un territorio inesplorato, la partita è delicatissima.
Oltre il bla bla bla, cosa si può fare?
Andrea Roventini, uno degli economisti autori dello studio per il Pnas, ha sottolineato sul suo profilo Twitter quanto sia fallace la tesi che cerca di non imputare al cambiamento climatico le sfide in atto denunciando l’alternanza tra periodi di siccità e alluvioni come potenzialmente incoerente. Lo studioso della Scuola Sant’Anna ha segnalato un paper de LaVoce.info ove si segnala come spesso negli stessi anni i danni da siccità e quelli da precipitazioni estreme, proprio per il venire meno della termoregolazione del pianeta, si susseguono ciclicamente. L’Italia dell’ultimo periodo lo testimonia.
Per quanto riguarda le soluzioni di adattamento, La Voce segnala che “la migliore strategia sembra essere quella che prevede di sviluppare tecnologie sia verso la mitigazione che l’adattamento al cambiamento climatico. Per rimanere nel campo climatico, le così dette nature-based solutions, sono strategie di adattamento che rafforzano la resilienza dei sistemi ecologici”. Partendo, ovviamente, dalle aree più fragili. Misure spot oggi per i Paesi più deboli sono le antesignane di misure insufficienti di domani per le economie più avanzate. I grandi della Terra stanno, sostanzialmente, dando ragione a Greta: tanto bla, bla, bla, pochi fatti concreti. Al di là dell’annuncite che serve a giustificare questi eventi.