C’è un filo rosso che collega la tragedia della guerra nei Balcani a quella della guerra in Ucraina. Ed è il filo di una chiara “inesistenza dell’Europa come attore politico capace di incidere mentre una crisi scoppia nel cuore del continente”. Parola di Toni Capuozzo, giornalista e inviato di guerra, che ha visto con i propri occhi, negli ultimi decenni, alcuni dei conflitti più sanguniosi dell’era post-Guerra Fredda. E parlando con True News mostra il mosaico della complessità di guerre logoranti e che l’Europa, ieri come oggi, non ha compreso.
Dai Balcani all’Ucraina, la visione di Capuozzo
Capuozzo, nel suo libro Balcania (Biblioteca dell’Immagine, 2022) ha raccontato la sua esperienza da Sarajevo a Srebenica, nel cuore dell’ultima guerra europea combattutasi prima del conflitto in Ucraina, quella che segnò la dissoluzione definitiva della Jugoslavia. Una guerra della cui fase più critica, il conflitto in Bosnia ricorre il trentennale quest’anno e che non’è stata ancora compresa fino in fondo.”Quello che successe negli Anni Novanta nei Balcani non è stato metabolizzato fino in fondo, soprattutto perché allora le immagini colpivano ma buona parte di quel decennio è stato connotato da un conflitto crudele, poco comprensibile al grande pubblico, di cui era difficile far capire le cause profonde”, nota Capuozzo. E soprattutto “la complessità degli schieramenti e la brutalità degli scontri impediva all’opinione pubblica di fare ciò che in genere agli italiani riesce bene: schierarsi. Non si capiva chi erano “i buoni” e “i cattivi”, non c’era la possibilità di identificarsi come avvenuto, con molte semplificazioni, in altri conflitti.
Soprattutto nella fase finale della guerra, sia nel conflitto bosniaco che in quello del Kosovo, venne fuori una dinamica che oggi si sta ripetendo: “l’inesistenza dell’Europa, la sua importanza nulla come attore politico”, ci dice Capuozzo. Ieri come oggi Bruxelles era vaso di coccio tra i vasi di ferro. “L’Europa tentò una mediazione senza successo in Bosnia che, anzi, accelerò le dinamiche conflittuali. Nel 1995 a risolvere la situazione, prima coi bombardamenti attorno a Sarajevo e poi coi colloqui di pace, furono gli Stati Uniti. Dopo l’ingerenza umanitaria di Washington non a caso la pace venne firmata a Dayton, in Ohio”. E furono sempre gli Stati Uniti a promuovere, quattro anni dopo, nel 1999, “l’intervento contro la Serbia di Milosevic e il conseguente via libera al distacco del Kosovo dall’autorità di Belgrado”.
“Non c’è morale nelle bombe”
Ieri la Bosnia e il Kosovo, oggi il Donbass. Ieri l’intervento Nato, oggi quello russo. Dinamiche che nella complessità sono unite da un filo rosso: la volontà di destrutturare l’unità di Paesi sovrani da parte di attori esterni. Conflitualità che possono restare congelate o sopite per anni prima che una grande potenza intervenga a farle deflagrare: del resto, per fare un esempio, le repubbliche di Donetsk e Lugans riconosciute il 21 febbraio scorso come indipendenti da Vladimir Putin “ormai da otto anni sono distaccate dalla sovranità di Kiev”. E, ricorda Capuozzo, “ogni guerra presenta le sue tragedie: nelle scorse settimane abbiamo assistito ai bombardamenti a Kharkiv, Mariupol, Kiev, ma cosa c’è di diverso da quanto accaduto nel 1999 sulla capitale serba? Dai bombardamenti in cui morirono centinaia di civili all’attacco all’ambasciata cinese”, tuttora oggetto di un dibattito storico, “la Nato usò il pugno duro” e in quest’ottica “non c’è morale nelle bombe” che cadono su obiettivi civili o su città inermi.
La lezione dei Balcani è in quest’ottica in grado di parlare al presente. Ricordandoci una lezione che deve guidare ogni possibile ricerca di una soluzione in Ucraina, è importante la constatazione che nei Balcani quando la pace sembra essere raggiunta, in realtà sotto le ceneri la fiamma del conflitto arde ancora. E la storia è sempre ben ricordata dagli attori in campo Guardiamo a cosa accade nelle settimane in cui scoppia la guerra in Ucraina nei Balcani: la Repubblica Sprska di Bosnia ribolle, l’unità del Paese è a rischio, la Serbia appare pivot russo, nell’Oriente d’Europa c’è maretta. Per Capuozzo ciò ci ricorda che quelli balcanici “sono conflitti ibernati, più che congelati. La pace in quelle aree assomiglia più a un lungo cessate il fuoco, Paesi come la Bosnia esistono sulla carta come unioni riottose di comunità che non si amano“. E ogni occasione è buona per riprendere con forza il filo della contrapposizione: “in Bosnia in questo periodo la guerra in Ucraina sta dividendo le comunità, con i serbi che parteggiano con la Russia, mentre i croati sono pro-Kiev. Questo si vede in maniera vistosa, come a richiamare le divisioni interne con la scusa della guerra a Est”.
Lo scacco dell’informazione secondo Capuozzo
I Balcani sono sempre di più una polveriera, ci ricorda Capuozzo: “La Cina ha mandato missili antiaerei terra-aria a Belgrado poche settimane fa, il Kosovo è da tempo in allerta, in Bosnia come detto si gioca una partita complessa. Siamo ancora prudenti a utilizzare l’espressione terza guerra mondiale, ovviamente, ma se dovessimo pensare a un’espansione a macchia d’olio della situazione di conflittualità permanente Bosnia e Kosovo sarebbero due possibili punti caldi da tenere d’occhio”.
C’è, infine, l’informazione. Oggi che consapevolezza c’è di questa complessità? Siamo nella guerra più social della storia e la nebbia di guerra, eppure, prevale. Capuozzo ha vissuto in prima persona guerre, tragedie, conflitti di ogni tipo. Gli chiediamo che lezione si possa trarre dall’esperienza di conflitti di ieri come quello balcanico per parlare dell’approccio odierno all’informazione. “L’informazione in generale”, nota Capuozzo, “è da vent’anni disaffezionata ai commenti”. L’ultima guerra raccontata, sottolinea, “è stata quella americana contro Saddam Hussein”. E salvo un ritorno d’interesse ai tempi “della fine dello Stato Islamico “l’informazione oggi è specializzata nel dimenticare le guerre più che nel raccontarle. Salvo poi ribaltare il piano quando i suoi operatori scoprono gli orrori della guerra come se non avessero idea di cosa comporti un conflitto”.
L’indignazione per la difficoltà nel creare corridoi umanitari da città come Mariupol”, ad esempio, “lo testimonia. L’orrore peggiore di una guerra” e ciò a cui l’Occidente e l’Europa è meno preparato a far fronte, “è una constatazione di base abbastanza semplice: il fatto cioè che ciò che nelle comunità umane è ritenuto moralmente inaccettabile e criminale fare in tempo di pace, cioè uccidere, diventa programma, diventa obiettivo”. Dai combattimenti crudeli dell’Azovstal all’utilizzo di scudi umani, il conflitto in Ucraina riporta alla vista terribili immagini che l’Europa sembrava aver dimenticato e alla cui comprensione non appare pronta.
“L’informazione, oltre che impreparata, è molto schierata, convinta che nelle guerre esistano i Buoni e i Cattivi” e si possano distribuire ragioni e torti in senso assoluto. Il fatto che “nella guerra in Ucraina l’invasore e l’invaso siano chiaramente riconoscibili” non impedisce di analizzare “cosa si sia sbagliato, da parte russa e occidentale, negli ultimi otto anni per far sì che il conflitto scoppiasse“, che cosa “sia sfuggito alla nostra capacità di previsione”. E soprattutto, questo non significa che da un momento all’altro tutto ciò che fa una parte deve esser giustificato e tutto ciò che fa l’altra automaticamente demonizzata. “L’intervista ai prigionieri di guerra” e la loro esposizione al pubblico ludibrio da parte “sia dei russi che degli ucraini” è un esempio di una piccola, ma significativa, violazione della Convenzione di Ginevra che “disumanizza il nemico” e in cui sia Mosca che Kiev sono responsabili. Da qui in avanti si capisce perchè, di violazione in violazione, la guerra prosegua crudele e senza esclusione di colpi. Riportando le lancette della storia a trent’anni fa, ai giorni più bui del conflitto balcanico.